19 Luglio 2020
Corriere della Sera

Giulia Maria Crespi. Quando metteva sull’attenti politici, banchieri e industriali

di Ferruccio de Bortoli


A Giulia Maria non piacevano i convenevoli. Era diretta, schietta. Nella sua prepotente dolcezza poteva apparire persino scortese. Impaziente di sentirsi dire di sì a ogni sua richiesta che riteneva giusta, improrogabile, definitiva. Un modo di fare autoritario nella sua semplicità (era la «zarina» secondo i detrattori che non mancarono, viste le sue simpatie politiche). A volte trattava il potente di turno come fosse il suo domestico (che peraltro considerava affettuosamente di famiglia). Ho visto ministri, banchieri, industriali di fama abilmente messi sull’attenti da una donna minuta, gracile, ma innervata da una volontà di ferro. Erano spesso ospiti della sua meravigliosa casa di corso Venezia a Milano, forse intimoriti dai Canaletto che il padre aveva acquistato per poco (invidiati dalla regina Elisabetta), dalla preziosità degli arredi di una famiglia simbolo dell’imprenditoria tessile e editoriale lombarda. Intimoriti, imbarazzati. Il cronista annotava, con sottile godimento e ammirazione per quella donna che era stata – fino al 1974 – il suo editore. Ma Giulia Maria Crespi (chi scrive fu tra gli ultimi giornalisti che assunse) si è sentita editore di fatto del Corriere, del suo Corriere, fino all’ultimo. Anche se aveva scelto di investire nel principale concorrente La Repubblica, cosa che a noi procurava un certo disagio.

Quando si prospettò, in una stagione managerialmente sfortunata, di cedere l’area verde del centro sportivo nella periferia milanese, testimonianza d’antan della responsabilità sociale dei Crespi (che introdussero in busta paga anche il legnatico per il riscaldamento delle case dei dipendenti) i pensionati del Corriere scrissero a lei. Come ex proprietaria e come paladina del verde. Giulia Maria ha continuato a trattarci come i suoi ragazzi, spesso prendendoci metaforicamente a ceffoni. A chiedere, spronare, scrivere. Non per sé. Mai. Non per qualcuno che la pregava di intercedere per i suoi interessi, politici ed economici (per questi ultimi coltivava un regale disinteresse vicino al disprezzo). Mai. Per le sue battaglie a favore della natura, dell’agricoltura sostenibile e biodinamica, contro l’inquinamento, contro le speculazioni edilizie, contro le tante brutture italiche. E per il suo Fondo italiano per l’ambiente (Fai) che nel 1975, venduto il Corriere, volle sul modello del National Trust inglese. Quasi un figlio. Giulia Maria aveva due gemelli. Aldo Paravicini è morto in un incidente d’auto la scorsa primavera nella tenuta sul Ticino rinomata per i prodotti biologici. Come il padre Marco quando Giulia Maria era incinta di Aldo e Luca. E immaginiamo quale sia stato il suo dolore intimo. L’avrà certamente nascosto sotto la sua disciplina calvinista, austera e poco incline a svelare i sentimenti. Avrà forse accelerato i morsi di quel tumore che pensava di aver sconfitto nel 2014 (rifiutando la chemioterapia) e invece aveva ripreso, inesorabile, il suo corso.

Nel 2015, su sollecitazione della famiglia ma anche per quel senso del dovere prettamente borghese e meneghino del «lasciare le cose in ordine, senza dimenticare nulla», Giulia Maria scrisse le sue memorie. Quel libro «Il mio filo rosso» (Einaudi) è una splendida cavalcata (uso questo termine e poi si capirà perché) nella vita di una «bambina irruente, libera e allegra», rimasta tale anche passati novant’anni. «Nella mia vita ho commesso un sacco di sbagli e ho molti difetti – dirà in una intervista sul libro ad Antonio Gnoli di Repubblica – ma ho sempre cercato la verità. Nel nostro Paese quasi tutti hanno paura della verità. C’è la necessità di raccontare i fatti come sono avvenuti. I valori morali mutano, il costume cambia. I fatti restano». Ecco, i fatti restano. Questo dovrebbe dire un editore vero. Al netto del suo carattere, lei l’avrebbe fatto bene il mestiere di editore. Ma si trovò ad essere proprietaria del Corriere in un periodo in cui i bilanci facevano acqua da tutte le parti. «Ma se tu fossi stata il mio editore mi avresti cacciato presto come avvenne con Spadolini» le dissi una volta. Lei sorrise. Ma nel libro, Giulia Maria ammise di essersi sbagliata mandando via il primo presidente del Consiglio non democristiano, causa della sua rottura con Montanelli.

Nelle sue memorie si affermano una coscienza ecologica e una cultura della bellezza che, senza questa donna ostinata e scorbutica, l’Italia non avrebbe mai avuto. Indimenticabili le pagine in cui in una Sardegna incontaminata e selvaggia – che contribuì a preservare – racconta la sua cavalcata con l’architetto Guglielmo Mozzoni e l’inizio della sua storia d’amore. Guglielmo aveva il suo bel carattere. Rimase turbato vedendo il film (Teorema) di Pier Paolo Pasolini, poi collaboratore del Corriere, che Giulia Maria consentì di girare alla Zelata. Troppe perversioni, minacciò di divorziare. Guglielmo inseguì i suoi progetti impossibili di una architettura fusa con la natura (con i suoi inevitabili inconvenienti e disagi). Quando, negli ultimi anni della sua vita, ormai sordo, alzava troppo la voce, Giulia Maria lo riprendeva con uno sguardo dolce e implorante. Un mondo che non c’è più, di cui avremo nostalgia. Sperando che Giulia Maria non ci senta perché non sarebbe d’accordo. C’è tanto da fare – direbbe – guardiamo avanti.


(Corriere della Sera, 19 luglio 2020)


Ndr: Segnaliamo il documentario Giulia Maria Crespi – La Signora del FAI, su MeMoMi, La memoria di Milano (30 luglio 2018): https://memomi.it/giulia-maria-crespi-la-signora-del-fai

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