di Alessandra Pigliaru
Verso il 25 novembre. Ieri Di.Re. ha presentato i dati sul 2020: «oltre 20mila le donne che si sono rivolte ai nostri centri, ma i fondi sono scarsi». Intanto, nelle ultime ore, salgono a tre i femminicidi. Autori sono partner o ex. Spesso uccidono anche i figli
L’ultimo femminicidio è avvenuto poche ore fa, a Montese, sull’Appennino modenese. Un uomo ha accoltellato la moglie e in seguito ha cercato di togliersi la vita. Poco distante da lì, a Sassuolo, un altro uomo, ex partner di Elisa Mulas, ha ucciso ieri l’altro lei, la ex suocera e i due figli di 2 e 5 anni.
Quante donne muoiano per mano maschile ce lo raccontano le cronache, quasi ogni giorno (alcuni dati si trovano nel sito del Ministero dell’Interno che stila un report settimanale). Che l’intensificarsi di questo fenomeno, strutturale e sistemico, coinvolga sempre più spesso i bambini e le bambine lo rammentano le storie, come quella di Vetralla, nel viterbese, quando un uomo, che aveva il divieto di avvicinamento alla sua ex e al figlio, ha ucciso il bambino di 10 anni.
C’è un denominatore comune in queste vicende, ovvero la volontà deliberata delle donne di fuoriuscire da una condizione di violenza mettendo dunque fine alla relazione. In più di un caso, gli individui che le hanno uccise, o hanno ucciso i figli, hanno contravvenuto a ordinanze e, senza apparente difficoltà, hanno raggiunto le proprie vittime. Qualcosa non sembra funzionare, ed è un fatto di cui si discute da tempo. Lo fanno anche i centri antiviolenza, come quelli della rete Di.Re. che ieri hanno presentato alcuni dati (relativi al numero di donne che si rivolge ai Centri) insieme alle iniziative in vista del 25 novembre (giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne) e della manifestazione organizzata da Non Una Di Meno di sabato 27.
La rilevazione presentata ieri, curata da Sigrid Pisanu e Paola Sdao, copre l’intero 2020. Hanno partecipato 81 organizzazioni aderenti a Di.Re per un totale di 106 centri antiviolenza di cui il 60% può contare su almeno una struttura di ospitalità, cioè le case rifugio strutture essenziali in casi di allontanamento necessario dall’abitazione famigliare, non solo per le donne ma anche per i figli. Che le case rifugio (insieme alle case di semi-autonomia), 64 in totale, siano in numero insufficiente in tutto il territorio nazionale è un dato che colpisce ma non sorprende, non si possono fare miracoli con pochi fondi distribuiti in maniera eterogenea. Il 72% dei centri usufruisce di finanziamenti pubblici di fonte regionale (i fondi più consistenti in Friuli Venezia Giulia, Lombardia e Toscana), oltre la metà beneficia di finanziamenti comunali (l’Emilia Romagna è la più virtuosa) e circa un terzo dal Dipartimento pari opportunità. Ci sono poi i finanziamenti privati che sono una fonte per il 75% dei centri. Il lavoro di Di.Re., che fa accoglienza, offre consulenza legale, psicologica e percorsi di orientamento al lavoro, insieme a consulenze genitoriali, gruppi di auto-aiuto e consulenza alle donne immigrate, è dunque su base largamente volontaristica. Anche nel 2020, con 20mila donne accolte, di cui 13mila al primo contatto (dunque accolte per la prima volta), sono le volontarie a sostenere le attività dei centri, soltanto il 32% delle oltre 3mila viene retribuita.
Il dato relativo ai profili delle donne che si rivolgono a un centro antiviolenza è omogeneo rispetto agli anni precedenti, il 54,7% ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, la maggior parte è di nazionalità italiana e una donna su tre non ha reddito. I tipi di violenza vanno da quella psicologica a quella economica, dalla violenza sessuale allo stalking cui le prime due forme spesso si appaiano.
Anche l’autore della violenza è della stessa tipologia: nel 76,4% dei casi è di nazionalità italiana, un’età compresa tra i 30 e i 59 anni, la metà ha un lavoro stabile e nel 60% dei casi sono partner, nel 22,1% sono invece ex.
Punto importante della conferenza stampa di ieri è l’Osservatorio sulla vittimizzazione secondaria, ne ha parlato Nadia Somma ponendo l’accento sulle «conseguenze più dolorose dei percorsi giudiziari che le donne affrontano per porre fine alla violenza che subiscono, ovvero l’essere rese nuovamente vittime a causa di procedure e approcci che non riconoscono o minimizzano la violenza subita, mettono in dubbio la loro credibilità, le colpevolizzano per la stessa violenza subita, sottovalutano l’impatto della violenza assistita da figli e figlie e impongono forzatamente forme di bigenitorialità che consentono agli uomini maltrattanti di reiterare comportamenti abusanti nei loro confronti».
Ieri, una nota di Donatella Conzatti, segretaria della commissione d’inchiesta sul femminicidio, fa sapere che è stato approvato in Consiglio dei ministri il Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne per il triennio 2021-2023. L’ultimo era scaduto nel gennaio 2021, lamentano i centri antiviolenza che, pochi giorni fa, in una lettera aperta alla ministra Bonetti dal titolo «Forma e sostanza, i finti percorsi partecipati» specificavano come non vi sia stato ascolto e condivisione nel metodo e in alcuni contenuti, augurandosi di essere smentite quando si conosceranno meglio i dettagli.
(il manifesto, 19 novembre 2021)