di Francesca Mannocchi
Dalla finestra della sua camera, a nord di Tel Aviv, Iddo Elam ogni mattina vede uno striscione che recita: Bring them home. Riportiamoli a casa. È una delle decine di insegne che ricordano agli israeliani in ogni angolo della città che 136 ostaggi sono ancora a Gaza. Iddo ha 17 anni, frequenta le scuole superiori, suona il contrabbasso e ha deciso che sarà un obiettore di coscienza. In Israele significa sapere di finire in carcere.
Come il suo amico Tal Mitnick, il primo diciottenne israeliano che si è opposto all’arruolamento nelle Forze di Difesa israeliane da quando è iniziata la guerra a Gaza. In Israele il servizio militare è obbligatorio per la maggior parte degli uomini e delle donne.
L’arruolamento è la norma, fa parte dell’identità nazionale del Paese, per questo la preparazione comincia spesso intorno ai sedici anni, i militari fanno visita alle scuole e invitano i ragazzi e le ragazze a iscriversi volontariamente ai campi di addestramento. I pochi che sono esentati, lo fanno con mezzi silenziosi: chi è impegnato negli studi religiosi, o per motivazioni di salute fisica e mentale.
L’arresto per gli obiettori di coscienza
Iddo dice che la prima cosa che si chiedono i giovani quando si incontrano è: dove andrai nell’esercito? I pochi obiettori di coscienza di solito vengono condannati a dieci giorni di prigione, e condannati ancora se continuano a rifiutare la leva. Tal Mitnick è in prigione da trenta giorni, ed è probabile che la sua pena verrà prolungata. Una punizione più severa della norma, dunque simbolica, in un clima in cui la guerra ha ricevuto un sostegno senza precedenti da parte dell’opinione pubblica israeliana.
Per spiegare la sua decisione pubblicamente Mitnick ha scritto: «La violenza non può risolvere la situazione, né da parte di Hamas, né da parte di Israele. Non esiste una soluzione militare a un problema politico». Lui e Iddo fanno parte di un piccolo gruppo di attivisti, Mesarvot, parola che significa: ci rifiutiamo. Non si rifiutano solo di combattere, rifiutano anche l’occupazione dei territori palestinese e oggi, a gran voce, gridano il rifiuto di questa guerra.
Iddo pensa ogni secondo al 7 ottobre. Nello studio di suo padre, avvocato, c’è la fotografia di un amico di famiglia. È uno dei rapiti da Hamas. Non c’è stato un giorno, da quando le sirene lo hanno svegliato quella mattina, che non si sia domandato cosa sia la giustizia.
Una risposta non la ha, ma sa che è impossibile parlare di sicurezza senza parlare della fine dell’occupazione, che è impossibile parlare dei propri diritti senza riconoscere quelli degli altri, impossibile infine parlare di dolore e di vendetta contemporaneamente. A scuola lo chiamano nazista, sostenitore di Hamas, traditore, amico dei terroristi. Iddo sa di appartenere a una ristretta minoranza ma crede che l’unico modo di resistere alla corruzione che l’odio determina nell’animo dell’uomo sia scendere in piazza e manifestare il proprio dissenso. Non si rassegna all’idea che la guerra sia la sola risposta al trauma.
Lo shock del 7 ottobre e i refusenik
Quando prova a mettere in fila le emozioni del 7 ottobre dice che prima di processare la rabbia e la tristezza, l’impotenza e il dolore, è stato giorni in stato di shock. Non capiva cosa gli stesse accadendo, poi ha cominciato a vedere le foto da Gaza e lo shock si è trasformato in una profonda angoscia: «Era come se la società attorno a me stesse trasferendo la propria sofferenza sulla sofferenza di altri. Pensare che quei civili vengono bombardati e uccisi dal mio governo e dal mio esercito ha rafforzato dentro di me la decisione di rifiutare la leva. È il solo modo che ho di protestare».
I refusenik sono una piccola fetta di un paese che crede sempre meno, o quasi più, nei negoziati di pace, sempre meno o quasi più alla soluzione dei due popoli e due stati. Iddo sa che non saranno poche centinaia di obiettori a muovere le convinzioni dell’opinione pubblica, ma sa anche che oggi la sua, la loro protesta si unisce alla frustrazione di chi si chiede quando finirà la guerra e come. Quale sarà il destino degli ostaggi e quale quello di Gaza.
La cosa che più li unisce è la richiesta di un cambio di passo politico. La sfiducia verso la leadership di Netanyahu.
A cercare di trarne vantaggio le frange estremiste. Come quelle che domenica scorsa si sono riunite nel Centro Congressi Internazionale di Gerusalemme con un’idea chiara del dopoguerra: ripristinare gli insediamenti nella Striscia di Gaza. Cinquemila (secondo gli organizzatori) i partecipanti della conferenza intitolata “Per la vittoria di Israele – La soluzione per la sicurezza: Ritorno nella Striscia di Gaza e nel nord della Samaria”. Per loro la strada è una soltanto, tornare lì e ricostruire le colonie di Gush Katif. C’era una cartina, mappe, progetti e uno slogan: gli insediamenti portano sicurezza.
Presenti anche i ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, a loro volta coloni ed espressione dell’estrema destra religiosa. In pochi hanno nominato gli ostaggi, ma tutti hanno ribadito che «è vietato negoziare con Hamas». L’unica via, sostengono, è interrompere ogni rifornimento alla Striscia di Gaza. Via che risponde all’idea che non vi sia distinzione, nella Striscia, tra civili e miliziani. Che tutti siano sostenitori di Hamas e che quindi la Striscia vada «ripulita» prima di essere reinsediata. Costi quel che costi. Lo dicevano le voci dei presenti, e i loro striscioni. Uno recitava: «Solo il trasferimento può portare la pace».
Non è un caso che l’applauso più nutrito l’abbia ricevuto Ben Gvir, quando ha detto «Incoraggiamo l’immigrazione e la condanna a morte dei terroristi», come a dire: se i gazawi vogliono sopravvivere è meglio che se ne vadano. Oppure tutti i civili saranno considerati come Hamas, in modo che siano tutti obiettivi legittimi. In un momento in cui il Paese è così diviso sulla strategia per liberare gli ostaggi e i piani militari, i partecipanti alla Conferenza si sono presentati come i soli ad avere un’idea del dopo: le famiglie sono pronte, le cartine ci sono, bisogna solo finire la guerra.
«La sete di vendetta ci intossicherà»
I mezzi sono gli stessi di chi per giorni ha cercato di bloccare l’entrata dei tir degli aiuti a Kerem Shalom. Lo scorso fine settimana solo nove camion sono riusciti a passare, altri cento sono stati reindirizzati verso il valico egiziano di Rafah.
Secondo i sondaggi dell’Agam Institute, quasi il 60% degli ebrei israeliani si oppone agli aiuti umanitari. «La maggior parte dell’opinione pubblica, oggi – dice Iddo – vede i palestinesi di Gaza come il nemico. Come se tutti a Gaza fossero terroristi o sostenitori del terrorismo. Ma questa sete di vendetta ci intossicherà. Volere che altri paghino il prezzo della nostra rabbia non ci darà garanzie di sicurezza».
Lo scorso febbraio, lui e gli altri refusenik di Mesarvot sono andati nei villaggi di Massafer Yatta, in Cisgiordania, per protestare contro lo sfollamento di 1.300 palestinesi dalle loro case. Come in altre situazioni analoghe l’esercito israeliano, per motivare l’evacuazione forzata dei villaggi palestinesi, aveva dichiarato l’area una «zona militare chiusa». Violando la legge, hanno sostenuto con la loro presenza le proteste degli abitanti di Massafer Yatta e sono stati, come loro, attaccati dagli ultranazionalisti e dalla polizia.
In piazza Iddo stringe uno striscione con scritto: «Cessate il fuoco ora». E canta un inno: due Stati, due Nazioni, ebrei e arabi si rifiutano di essere nemici. Suo padre è sempre alle sue spalle, in caso di arresto. Sa che tra poche settimane suo figlio si presenterà alla sede della polizia, si dichiarerà obiettore di coscienza e verrà arrestato.
La paura, per lui, non è la però prigione. Alla domanda cos’è la paura? risponde così: «Ho paura che questo luogo sia perduto, che questa terra, non Stato, che io chiamo casa, non guarisca mai. Ho paura che me ne dovrò andare. Ma le persone che chiedono a quelli come me “Perché non te ne vai?” sono le stesse che vorrebbero che i palestinesi lasciassero la loro terra. Ma dobbiamo restare, e tutti, perché solo insieme, anche avendo paura, non smetteremo di volere un futuro migliore».
(La Stampa, 1° febbraio 2024)