10 Febbraio 2024
La Stampa

Il coraggio delle ragazze

di Fabrizia Giuliani


C’è una ragazza coraggiosa a Catania. Ha tredici anni. La retorica del racconto mediatico può farla diventare una “bambina”, certo l’infanzia è finita da poco, ma il coraggio, la determinazione, l’equilibrio con i quali ha agito portano fino in fondo il timbro della maturità. Non si può dire lo stesso delle reazioni e dei commenti a questa storia, ma riavviamo il nastro. Martedì scorso, tardo pomeriggio, esce per una passeggiata con il suo ragazzo – diciassette anni – nel parco al centro della città, Villa Bellini. Viene importunata da un gruppo di sette giovani di origine egiziana – tre minorenni – che trascina a forza la coppia nei bagni pubblici: lei viene abusata mentre il resto del gruppo tiene fermo lui. Dopo la violenza riescono a scappare, chiamare aiuto e denunciare. Le indagini sono veloci, i possibili aggressori identificati. La ragazza è convocata per il riconoscimento all’americana: molte facce, vetri oscurati. Indica dov’è certa, confermando le prove a carico di due degli indagati, si ferma dove non lo è: «Non voglio accusare persone innocenti». Tredici anni. La celerità delle indagini, la lucidità della deposizione, la puntualità del riconoscimento portano a chiudere il cerchio in tempi veloci: domani l’udienza e la convalida dei fermi.

Catania come Palermo, come Caivano. I luoghi diventano metonimie perché sono i soli tratti distintivi di copioni identici: violenza di molti contro una ragazza, violenza che deve essere filmata, condivisa oltre il presente, esibita. Serve il trofeo, il video, per documentare e ricattare. La tua vergogna garantisce la mia, la nostra impunità. Fermiamoci qui, è un punto nodale: chi abusa, filma e minaccia pensa di poter far leva su un senso comune che anche in presenza di una violenza documentata può rovesciare la colpa. È tua la vergogna come è tua la colpa: non si esce a certe ore, non ci si veste in un certo modo, non si accettano inviti. Questo è il retaggio patriarcale, il “dividendo” come lo battezzò Raewyn Connell, ben chiaro a chiunque esercita violenza. Questo è il tratto da combattere e dovremmo averlo ben presente ogni volta che commentiamo i fatti. Se la condanna oscilla a seconda della nazionalità degli aggressori o delle vittime, se gli abusi diventano il terreno per la strumentalizzazione, come sta accadendo, il fatto retrocede o scompare. La battaglia è persa. Serve responsabilità, invece, quando si governa, senso della misura, equilibrio. Va tenuta la barra ferma, come lo sguardo della ragazza al momento del riconoscimento del suo aggressore. Lavorare perché gli stupri di gruppo non si ripetano, sconfiggere la cultura che li sostiene, vuol dire riconoscere il tratto che unisce Caivano, Palermo e Catania non sacrificarlo in nome di guerre ideologiche che producono nuova intolleranza. La violenza degli uomini contro le donne va riconosciuta, chiamata per nome e combattuta con la stessa forza, ogni volta che accade. Non potremmo mai sperare di sradicarla se non identifichiamo quel tratto che con immensa fatica la battaglia di libertà delle donne ha portato alla luce e che oggi, come mostrano le parole del padre di Giulia Cecchettin, comincia a essere condivisa anche dagli uomini.

La ragazza di Catania, come altre che l’hanno preceduta, ha aperto una strada: non è facile essere all’altezza del suo coraggio e di quello che le servirà per affrontare il processo. Rispettarlo, però, è un dovere e bisogna cominciare adesso.


(La Stampa, 10 febbraio 2024)

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