11 Novembre 2018
il manifesto

«Il ddl Pillon è sbagliato nell’impianto e va ritirato» Intervista a Luisanna Porcu della rete Di.Re.

di Alessandra Pigliaru

No Pillon. Un incontro con la responsabile del Centro Antiviolenza Onda Rosa di Nuoro, e segretaria dell’associazione nazionale D.i.Re – donne in rete contro la violenza

 

«Il ddl Pillon deve essere ritirato. Si tratta di un disegno di legge sbagliato nell’impianto e nessuna modifica lo potrebbe mai rendere accettabile. Le piazze indicano la piena consapevolezza da parte dei cittadini e delle cittadine della violazione dei diritti civili e umani inserite nella proposta». Lucida ed esatta, Luisanna Porcu commenta così la giornata di ieri in cui migliaia hanno manifestato per dire no alla proposta del senatore leghista. Psicologa-psicoterapeuta, responsabile del Centro Antiviolenza Onda Rosa di Nuoro, e segretaria dell’associazione nazionale D.i.Re – Donne in rete contro la violenza, conferma che il ddl sia «un passo che ci riporta indietro anche rispetto alla riforma del diritto di famiglia del 1975, prevedendo un’unica famiglia e un intervento statale nelle relazioni familiari, disciplinando minuziosamente ciò che sarà la vita di chi intende separarsi».

Che cosa raccontano le oltre cento piazze di ieri?

Rappresentano la richiesta di ritiro del ddl che nega l’accesso alla giustizia per tutte e tutti, crea un percorso a ostacoli per arrivare alla separazione generando delle enormi differenze da un punto di vista economico e familiare, affermando l’immenso potere del patriarcato e violando l’interesse dei bambini e delle bambine.

Quali sono i punti più critici del decreto e perché non si può cedere?

Entra pesantemente nella vita individuale e familiare delle persone cercando di imporre un unico «modello» come se tutte le separazioni fossero uguali; crescono tantissimo i costi della separazione, e nel momento in cui questo avviene va a colpire il soggetto più debole economicamente all’interno della coppia; è una proposta che non mette al centro i bambini e le bambine; abolisce il diritto del bambino a continuare a vivere nella casa familiare e non tiene conto delle donne che nella coppia subiscono violenza.

In che modo Di.Re. si colloca in questo percorso?

I Centri Antiviolenza della rete D.i.Re sottolineano da 30 anni il tentativo costante da parte delle istituzioni, della politica e degli ordini professionali di «normalizzare la violenza». Il ddl Pillon è esattamente uno di questi tentativi e discrimina le donne e i bambini. Il ddl nomina la violenza, è vero, ma la riconosce tale dopo il terzo grado di giudizio. È un disegno di legge che si traduce in azioni contraddittorie e contrapposte alle reali azioni di supporto necessarie dando continuità alla sottomissione e discriminazione delle donne e dei bambini. Obbliga le donne tutte a sottoporsi a sei mesi di mediazione prima di poter presentare istanza di separazione. Pretendere che le donne medino con il violento, cosa vietata non a caso dall’art. 48 della Convenzione di Istanbul, è vietata proprio perché non è possibile mediare tra chi prevarica e chi ha una posizione di subordinazione. Questo ddl pretende che le donne separino il loro essere donna e persona dal loro ruolo materno; chiede a loro che considerino la violenza come un problema tra partner e impone un modello di bigenitorialità che lede i diritti dei minori.

Pensare che la violenza e la funzione genitoriale siano “distinti” comporta sempre un ulteriore danno sia alla madre che ai minori. I bambini vittime di violenza assistita sono cresciuti con la consapevolezza costante di “quanto sarebbe potuto accadere” e quindi con un senso di profonda disperazione. Hanno sperimentato sulla loro pelle, direttamente o indirettamente, la loro funzione di “strumento” per l’esercizio del potere maschile sulla madre.

John Bowlby ha concluso i suoi studi affermando che i bambini sono programmati per svilupparsi in modo socialmente cooperativo e se non lo fanno dipende da come sono stati trattati. Il trauma da violenza assistita sulla madre rappresenta l’improvvisa interruzione dell’interazione umana, in quanto la violenza è la privazione della libertà di azione e di scelta a tutti i livelli.

I bambini investono di significato tutte le proprie esperienze e il modo in cui intrepretano le esperienze stesse è intimamente legato al senso di sé, che assistere alla violenza compromette in modo significativo. Quindi un uomo violento, anche se non lo è stato direttamente con il proprio figlio, non è e non dovrebbe mai essere considerato “comunque un buon padre”.

L’introduzione “sottobanco” della PAS non riconosciuta in nessun manuale diagnostico per la sua infondatezza clinica, andrà contro le donne in fuga da situazioni di maltrattamento. I bambini non potranno affermare di avere paura del genitore violento, perché il ddl prevede a quel punto un allontanamento dalla madre e addirittura l’inserimento in una comunità per minori.

Un bambino che chiede di non vedere il padre violento è un bambino “sano”, intendendo con questa parola, che è un bambino che attivamente struttura e mette in atto meccanismi di difesa che non sono solo inconsci ma espliciti. È un bambino che va ascoltato nella sua richiesta di assoluta protezione e riconoscimento della relazione sana e significativa con la madre, come sua richiesta non solo di protezione dalle violenze ma come unico modo per poter strutturare dei nuovi modelli operativi interni che gli consentiranno un nuovo senso di sé. È necessario, nell’intervento con i minori, sostenere le madri sopravvissute alle violenze, nella consapevolezza che solo contesti e relazioni significative prive di violenza consentiranno al bambino la creazione di nuovi modelli interni di funzionamento. E questo dovrebbe essere un concetto chiaro per tutti affinchè nei casi di violenza si preveda l’affido esclusivo alle madri e si vieti categoricamente l’uso strumentale della PAS nei tribunali.

Il ddl e i suoi sostenitori non riconoscono la violenza e la collocano nell’alveo delle liti familiari, nel conflitto. La violenza non è un conflitto, è esercizio di potere e la denuncia è uno dei momenti più delicati per l’incolumità della donna, in quanto innalza il rischio per la sua vita: non è un caso che la quasi totalità delle donne uccise dal partner avevano in precedenza già denunciato maltrattamenti e avevano a volte ritirato le querele a causa delle minacce subite. La donna che denuncia vive una condizione di assoggettamento a causa delle continue minacce, pressioni, ricatti dal partner maltrattante che causano nella stessa paura di ulteriori violenze e ne violano la sua autodeterminazione. Motivo per cui qualunque tipo diintervento di mediazione imposto è pericoloso oltre che dannoso. Il ddl Pillon prevede che: “qualsiasi trasferimento del minore non autorizzato in via preventiva da entrambi i genitori o dal giudice deve esser ritenuto contrario al suo superiore interesse e privo di ogni efficacia giuridica. È compito delle autorità di pubblica sicurezza, su segnalazione di uno dei genitori, adoperarsi per ricondurre immediatamente il minore alla sua residenza qualora sia stato allontanato senza il consenso di entrambi i genitori o l’ordine del giudice”. Questo va contro la Convenzione di Istanbul. Protegge i padri violenti e impedisce alle donne di mettere in protezione se stesse unitamente ai loro bambini.

Il prossimo passo che intendete fare?

Dopo l’audizione in Senato fissata del 13, la manifestazione femminista del 24 novembre. È dovere di noi tutte e tutti difendere i nostri diritti, che vanno dai nostri spazi alla 194, non dobbiamo permettere a nessun governo e nessun partito politico di prendere parola sui nostri corpi, sulle nostre vite e sulla nostra libertà di movimento.

(il manifesto, 11 novembre 2018)

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