27 Febbraio 2020
Il Quotidiano del Sud

Il dolore di Rosaria Costa, vedova Schifani

di Franca Fortunato


Chi non ricorda Rosaria Costa, la giovane moglie di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta (con Antonino Montinaro e Rocco Di Cillo) del giudice Giovanni Falcone e della moglie Francesca Morvillo, morti nella strage di Capaci? Era il 25 maggio 1992 quando nella cattedrale di Palermo, durante i funerali, Rosaria lesse un appello ai mafiosi e creò “sconcerto” per aver integrato il testo scritto e concordato, dando voce alla sua sofferenza, al suo strazio, con parole di verità. «Io Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani… (Vito mio) …, battezzata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato (lo Stato…) chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia. Adesso, rivolgendomi agli uomini della mafia (perché ci sono anche qui dentro i mafiosi) e non, ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono (Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio…). Se avete il coraggio di cambiare radicalmente i vostri progetti (ma loro non vogliono cambiare, loro non cambiano, loro non cambiano), tornate ad essere cristiani… Ve lo chiediamo per la nostra città di Palermo, che avete reso città di sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia e la speranza (troppo sangue, non c’è amore qui, non ce n’è amore qui, non c’è amore per niente…)». Rosaria, nei giorni seguenti, si mise in viaggio verso la verità. Andò a parlare con magistrati e avvocati, bussò alle porte di vedove della mafia, di vedove di vittime di mafia, per sapere, capire, chiedere consigli su cosa fare con un bimbo di quattro mesi, Antonino, a cui un giorno avrebbe dovuto spiegare che cos’è la mafia e perché suo padre era stato ucciso. Oggi quel figlio è capitano della Guardia di Finanza. Un viaggio che allora raccontò nel libro Lettera ai mafiosi – Vi perdono ma inginocchiatevi, scritto insieme al giornalista Felice Cavallaro, ed. Tullio Pironti, in cui si rivolgeva ancora una volta ai mafiosi, supplicava le loro donne, mogli, figlie, sorelle, perché abbandonassero i loro uomini e i figli maschi perché rinnegassero il padre. Nessun mafioso, condannato per la strage di Capaci, le ha mai chiesto perdono, i mafiosi non chiedono perdono, non si inginocchiano meno che mai davanti a una donna. Rosaria, lasciata Palermo, non ha mai smesso di tenere vivo il ricordo di Vito, andando nelle scuole a spiegare che cos’è la mafia. Il fratello Giuseppe, allora, prese le distanze dal suo appello e il boss Bonanno apprezzò. A distanza di ventott’anni, lei e noi sappiamo il perché. Giuseppe, giorni fa, insieme ad altri cinque capimafia, è stato arrestato, con l’accusa di essere al servizio di Gaetano Scotto, boss del quartiere L’Arenella, dove fratello e sorella sono cresciuti insieme. Quale dolore più grande sapere di essere stata tradita, in tutto quello per cui hai vissuto e lottato, da tuo fratello? Rosaria è incredula, «Un fratello mafioso?» e lo supplica «adesso inginocchiati tu e chiedi perdono, fratello». Sa che non lo farà e si sente «pronta a ripudiarlo». Un fratello lo si può allontanare, rinnegare, ripudiare, ma Rosaria, come ognuna/o di noi, sa che il legame resta perché non si può cancellare la madre. La loro madre, che lei vuole proteggere perché «sarebbe un colpo terribile per lei sapere che le hanno arrestato il figlio, non posso permetterlo».


(Il Quotidiano del Sud, 27 febbraio 2020)

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