17 Settembre 2021
il manifesto

Il dramma dell’aborto clandestino e la banalità di uno stupro

di Luciana Castellina


Mai come a questa ultima Mostra di Venezia le donne erano state così protagoniste di un evento cinematografico. Non solo in quanto autrici ma per lo spazio inedito che è stato dato alla loro specifica problematica, che peraltro acquista un interesse particolare perché finalmente sono le donne stesse a parlarne, non – come è quasi sempre accaduto – gli uomini. L’aborto è addirittura diventato Leone d’oro!

Questo premio a L’événement mi ha colpito particolarmente perché ricordo bene quel tempo in cui in Francia si cominciò a porre il problema della sua legalizzazione perché fu il Pdup che organizzò, in una affollatissima aula della Sapienza, un incontro con Gisèle Halimi, la ben nota avvocata paladina della causa palestinese che aveva creato il movimento Choisir che sfidò le autorità francesi in un celebre processo in cui la parte “colpevole” – la donna che aveva praticato l’illegale aborto – divenne pubblica accusa. Fu, in effetti, la prima volta che il tema in Italia superò i confini di una battaglia che era stata solo delle appena nate femministe per diventare anche qui una grande battaglia politica nazionale.

E poi lo stupro: i film che lo raccontano sono tantissimi. Se ne contano 25, ma colpisce vedere quanto tardi il problema sia stato affrontato: sono tutti molto recenti, non prima degli anni ’80. Ed è naturale visto che prima di allora in Italia la violenza sessuale non era neppure un reato contro la persona, solo un’offesa alla morale, tant’è vero che era facilissimo liberarsi da ogni senso di colpa: chi si doveva difendere era infatti la donna, accusata di esser stata lei a suscitare la naturale reazione del maschio indotto ad abusare di lei per via di qualche suo comportamento non rispettabile. Bastava all’uomo generosamente promettere alla sua vittima un matrimonio riparatore, magari preceduto dalla “fuitina”, che legittimasse a posteriori la sua perdita della verginità, a mettere tutto a posto, non importa se lei consenziente o meno.

In ognuna delle storie raccontate l’imputata, anche dopo che la nuova legge aveva finalmente stabilito che si trattava di un reato contro la persona, restò, nei fatti, e a lungo, la vittima, per via di un incredibile stravolgimento del nuovo dettato del Codice. Tanto forte e diffusa era infatti ancora la convinzione che se una ragazza veniva stuprata doveva aver colpevolmente provocato il violentatore, che i processi vennero a lungo condotti tutti secondo l’ipotesi che l’obiettivo fosse trovare qualche prova che la vittima aveva compiuto un atto tale da giustificare – e dunque assolvere – la “naturale reazione maschile”. Famoso è rimasto il coraggioso film della regista Leonarda Dardi*, la prima che osò denunciare questo capovolgimento della realtà compiuto dai magistrati dell’epoca, portando in scena un film girato in Tribunale, a documentazione di uno di questi processi (poi addirittura ripreso dalla Rai).

Bisogna tuttavia stare sempre all’erta. Oggi lo stupro è riconosciuto come tale e condannato con clamore grazie a uno straordinario movimento di donne, forte e combattivo in tutto il mondo. E però di queste violenze sessuali si dà in genere una immagine sempre molto violenta e comunque fondata sull’uso di un potere maschile, regista o padrone o in grado di avere il destino sociale della donna nelle proprie mani. Così è infatti in molti casi; e però questa narrazione finisce per oscurare qualcosa che è molto più diffuso e subìto: l’abuso del corpo della donna che pur non consenziente finisce per non opporsi quasi perché quella prepotenza non sembra neppure a lei aggressione ma solo espressione di una consuetudine. Innanzitutto perché viene da un coetaneo, non da un bruto sconosciuto o potente, solo un ragazzo come un altro, che incontra in un luogo consueto, che resta inconsapevole di quanto ha fatto. Perché in realtà la battaglia contro la arroganza del maschio, il suo disprezzo del corpo femminile, come comportamento “normale”, non l’abbiamo colta, tanto introiettata anche in noi è la sottomissione.

Ne parlo perché a Venezia ho visto l’ultimo film di Wilma Labate – La ragazza ha volato – che questo dato della normalità del male lo coglie a pieno e lo descrive con grande convincente delicatezza. La ragazza subisce la violenza e il ragazzo la vive come normalità. Alla fine – nel film – come se niente fosse le dice: «Ci andiamo a fare un panino?», una frase che più non potrebbe dar conto della sua indifferenza, della sua totale assenza di consapevolezza.

“Normale” è anche tutto il resto: i genitori pronti, quando la ragazza resta incinta, ad accompagnarla a praticare un aborto, perché sono una famiglia normale, normalmente moderna; che abitano in una casa normale in una città ordinata come Trieste, non in un quartiere dominato dalla droga. Tutte cose che invece Nadia, che decide di voler tenere il bambino, non vive con tranquillità, perché non ha con chi parlarne, ognuno chiuso in sé stesso, madre, padre, sorella, coetaneo e anche la lontanissima scuola che non riesce – non ci prova neppure – a colmare il vuoto di un silenzio individuale e sociale crescente. Se insiste a tenere il bambino è forse perché lo sente come il primo passo verso un’identità umana e sociale consapevole e riconoscibile.

Mi domando se su questo film non dobbiamo tutte riflettere per imparare a difenderci non solo dalla brutalità esplicita ma da quella tutt’ora nascosta nella normalità che non siamo ancora riuscite a cambiare. Dell’orrore della “normalità del male” siamo stati ben informati, ma è più difficile riconoscerlo. E dunque combatterlo. Il film di Wilma Labate, sarà proiettato a Roma nell’ambito di Alice nella città che riprende una selezione dei film di Venezia.


(il manifesto, 15 settembre 2021)


(*) Si tratta del film «Processo per stupro», che fu realizzato da Loredana Rotondo, Rony Daopulo, Paola De Martis, Annabella Miscuglio, Maria Grazia Belmonti, Anna Carini e fu girato espressamente per la Rai. (La redazione)

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