12 Marzo 2021
Corriere della Sera

Il duello tra gli ex coniugi. Di chi sono gli embrioni?

di Fulvio Bufi


Nei giorni scorsi il tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha accolto l’istanza di una donna che chiedeva di poter ricevere, nonostante il parere contrario dell’ex marito, l’impianto degli embrioni creati con il coniuge prima della separazione e poi crioconservati. La sentenza emessa dai giudici casertani è la prima in Italia che sancisce il diritto della donna a procedere alla procreazione medicalmente assistita anche se l’uomo con cui ha creato gli embrioni non vuole più diventare padre.

Secondo quanto sostiene l’avvocato toscano Gianni Baldini, legale dell’aspirante mamma, la decisione del tribunale fa riferimento alla legge 40, che regola la procreazione assistita e contempla la regola del consenso solo fino alla fecondazione dell’ovocita. Dopo l’uomo non può più impedire l’eventuale gravidanza, anche se nel frattempo ha cambiato idea: dovrà comunque assumere la paternità giuridica e farsi carico di tutti i relativi obblighi, sia economici che morali, nei confronti del figlio.

L’avvocato Baldini ritiene che la sentenza di Santa Maria Capua Vetere possa fare da apripista per casi analoghi pendenti in altri tribunali. E se lo augura anche la protagonista della vicenda, che in passato, prima della separazione, già tentò di avviare la gravidanza ma senza successo. Ora, nel commentare la sentenza, dice: «Quando quegli embrioni furono creati io e il mio ex marito vivevamo in un contesto d’amore. Quindi spero di aver fatto qualcosa anche per tutte le altre donne che si trovano nella mia stessa situazione».



Il diritto di chi non vuole è più forte. Lo ha riconosciuto anche lEuropa

di Chiara Lalli


Tennessee, anni Ottanta. La signora e il signor Davis sono sposati da poco e vogliono un figlio, ma le cose non vanno come desiderano. Mary Sue, dopo cinque gravidanze extrauterine, si fa chiudere le tube. Provano sei volte con le tecniche riproduttive e poi con l’adozione. Niente. Riprovano con la fecondazione in vitro: due embrioni vengono trasferiti, sette vengono congelati. Anche il settimo tentativo fallisce. A febbraio del 1989 i Davies decidono di divorziare, ma c’è un problema: che fare degli embrioni congelati? La signora Davis vuole riprovare, il signor Davis no e la disputa finisce in tribunale. Chi ha ragione? Il giudice sceglie di impostare la causa sullo statuto degli embrioni: sono persone o prodotti? Questa falsa dicotomia è comune ma non risolve la questione. Inoltre, quasi nessuno di quelli che rispondono “sono persone” poi prende sul serio la propria risposta. Perché se davvero gli embrioni fossero già̀ bambini, sarebbe di certo orrendo congelarli e destinarne moltissimi alla morte (ma ne basterebbe anche uno solo, come basta un solo omicidio). Quindi le tecniche riproduttive dovrebbero essere vietate, tutte e sempre.

Qualcosa di simile è successo in Italia. C’è una coppia che vuole un figlio, ci sono degli embrioni congelati, una separazione e un conflitto perfetto: lei vuole usarli per provare a diventare madre, lui non vuole più perché non vuole diventare padre – almeno non in queste circostanze. Il conflitto è perfetto perché la soddisfazione del desiderio di lei implica la necessaria violazione del desiderio di lui e viceversa, anche se in un senso più debole (lei potrebbe diventare madre in altro modo). Come i Davis si rivolgono al tribunale, e il giudice dà ragione alla donna. E forse non avrebbe potuto decidere altrimenti, visto che la legge 40 stabilisce che il consenso si può cambiare solo fino alla produzione degli embrioni e non fino all’impianto.

La differenza è rilevante, e se è giusto che dopo l’impianto sia solo la donna a decidere, prima non lo è ed entrambi dovrebbero avere la possibilità̀ di cambiare idea. A parte l’interpretazione della legge 40 e l’opportunità̀ di un suo ennesimo aggiustamento, da quando è possibile produrre un embrione e congelarlo fino al prossimo eventuale impianto ci sono alcune domande morali che è opportuno non ignorare. Qual è il suo statuto? Ha il diritto di nascere? E se c’è disaccordo sul suo destino, chi decide?

Nel caso italiano il giudice sembra considerarlo una persona, accettando le premesse della legge 40. «La legge 40/2004 pone l’esigenza di tutelare la dignità dell’embrione al quale è riconoscibile un grado di soggettività correlato alla genesi della vita non certamente riducibile a mero materiale biologico». «L’articolo 6 comma 3 non ammette più la revoca del consenso alla procreazione assistita e l’articolo 8 attribuisce a siffatta volontà – irrevocabile – funzione determinativa di maternità, di paternità e di status di figlio». E soprattutto «con riguardo alla fattispecie in esame deve ritenersi prevalente il diritto dell’embrione a nascere».

Se esiste un simile diritto, però, deve valere per tutti gli embrioni e non solo per quelli contesi. Se vogliamo cioè attribuire il diritto di nascere a morule e blastocisti, dobbiamo poi accettare le conseguenze necessarie di questa premessa, cioè farle nascere tutte. Non solo. Se presa sul serio, quella premessa avrebbe molte altre conseguenze: una significativa riduzione della possibilità di abortire; il divieto assoluto di ricorrere alle tecniche, perché molti di quegli embrioni muoiono o vengono scartati, violando il loro “diritto a nascere”; la riconsiderazione di molti comportamenti della madre durante la gravidanza e perfino delle sue condizioni di salute – cioè di tutto quello che potrebbe minacciare il diritto di nascere degli embrioni. Sarebbe un diritto piuttosto complicato da garantire oltre che pericoloso. A parte la legge 40, in un caso simile è più giusto permettere alla donna di usare l’embrione – con tutte le implicazioni morali e legali per l’uomo – oppure no? È più forte il diritto di diventare madre o quello di non diventare padre? La risposta nel caso opposto è facile (almeno finché non esisterà l’utero artificiale): non è pensabile e sarebbe moralmente ripugnante obbligare una donna a un impianto forzato e poi obbligarla a non abortire, perfino in nome del diritto dell’embrione a nascere. 
Ma se è l’uomo a non volere? È giusto costringerlo perché ha consentito a una tecnica e alla produzione degli embrioni? È giusto impedirgli di cambiare idea? Non ci sono solo le conseguenze giuridiche della paternità. Immaginate di essere costretti ad avere un figlio che non volete, un figlio che non volete più con quella persona. Anche sospendendo il dovere del mantenimento o eventuali altri obblighi pratici, l’aspetto più spaventoso è proprio l’essere padre per forza, l’esservi costretto. È giusto obbligare un uomo solo perché non è la persona che materialmente e con il suo corpo fa nascere un individuo? Queste domande, lo ripeto, valgono solo prima dell’impianto. 
Non c’è dubbio che per la donna sarebbe doloroso e frustrante il divieto di usare quegli embrioni, ma non è una ragione abbastanza forte per obbligare qualcuno a diventare padre. Per me la risposta più giusta (o meno ingiusta) è quella che hanno dato i giudici in appello ai Davis e la Corte europea dei diritti dell’uomo in un altro caso simile, quello di Natallie Evans: è più forte il diritto di chi non vuole diventare genitore. 
Insomma, in questa storia italiana ci sono almeno due problemi. Ribadire la “soggettività̀” e il “diritto dell’embrione a nascere”, rinforzando la premessa di una delle leggi più incoerenti e ingiuste sulle tecniche riproduttive. E quell’articolo della legge 40 sul consenso che andrebbe cambiato. Perché è moralmente ripugnante costringere qualcuno a diventare padre, impedendogli di cambiare idea prima dell’impianto. Perché è ingiusto ignorare i principi di uguaglianza e di libertà personale, di cui il non diventare genitore fa parte.


*Chiara Lalli è docente di Bioetica alla Sapienza di Roma


Carlo Rimini: «Giusto vincolare luomo agli effetti del suo consenso. Ma per quanto tempo?»


Un uomo non può pentirsi della decisione di diventare padre. Non può quando il concepimento avviene naturalmente e non può, a maggior ragione, quando l’embrione è l’effetto dell’impiego di tecniche di fecondazione assistita, che richiedono una preventiva manifestazione di consenso da parte di entrambi gli aspiranti genitori. La legge è chiara: l’art. 6 della legge n. 40 del 2004 (la legge sulla fecondazione assistita) afferma che il consenso può essere revocato solo fino al momento della fecondazione dell’ovulo. Consentire all’uomo di opporsi all’impianto dell’embrione porterebbe a risultati aberranti. La donna percepisce l’embrione come parte di sé, del proprio corpo: impedirle l’impianto che permette lo sviluppo del feto sarebbe come costringerla a subire un aborto. Spesso la donna si sottopone a cure invasive per stimolare la produzione ovarica e per consentire la fecondazione artificiale: costringerla a distruggere l’embrione che è stato creato dopo tanta fatica significherebbe abusare del suo corpo. Un abuso opposto, ma non dissimile, da quello che avvererebbe se la si volesse costringere all’impianto dell’embrione e alla gravidanza.

Nella fecondazione artificiale, la legge garantisce che l’accesso alle tecniche avvenga solo da parte di una coppia pienamente consapevole. Ciascuno degli aspiranti genitori fa affidamento sul consenso manifestato dall’altro. La tutela dell’affidamento è un principio cardine su cui si fonda il diritto privato. Non è infrequente che l’esigenza di tutelare l’affidamento porti l’ordinamento a sacrificare interessi rilevanti, e astrattamente meritevoli di tutela, della persona che avrebbe validi motivi per cambiare idea. L’interesse dell’uomo a far valere le ragioni per cui non vuole più un figlio contrasta con l’interesse della madre a portare a compimento ciò che si è deciso assieme. Il bilanciamento degli interessi è il compito del legislatore. In queste materie, in cui sono in gioco valutazioni etiche, è un compito delicatissimo. Nel caso della fecondazione artificiale, la legge tutela l’affidamento che la donna fa sulla serietà del consenso manifestato dall’uomo. Non tutela invece l’affidamento dell’uomo perché la donna può cambiare idea e nessuno può costringerla a subire l’impianto dell’embrione. La donna può quindi decidere e l’uomo no. È una disparità di trattamento contraria alla Costituzione? Non penso. Non c’è simmetria e non c’è uguaglianza di genere nella gravidanza. È la natura che ha stabilito che solo la donna può portare il peso della gestazione: è quindi la donna a decidere. Avviene anche nella gravidanza naturale. Quanti uomini, che non vogliono diventare padri, vorrebbero convincere la loro compagna – di una vita o di un’ora – ad abortire: non possono. Se la costringessero commetterebbero una violenza inaccettabile.

In realtà però la legge pone un problema. È certamente giusto vincolare l’uomo agli effetti del suo consenso per il tempo strettamente necessario per impiantare l’embrione, ma ci si deve chiedere se sia altrettanto giusto tenerlo vincolato ad un progetto di filiazione per molti anni, durante i quali l’embrione rimane crioconservato. Questo è un problema che la legge non si pone. Non se lo pone perché la legge n. 40/2004, così come approvata dal Parlamento, vietava espressamente, all’art. 14, la crioconservazione degli embrioni e consentiva la formazione di un numero limitato di embrioni, fino ad un massimo di tre, da impiantare contestualmente. La crioconservazione era in via di eccezione ammessa solo nelle ipotesi in cui si verificasse un problema tale da impedire l’impianto immediatamente dopo la fecondazione e per il tempo strettamente necessario a superare il problema. La legge però, così formulata, era contraria ai principi costituzionali perché – rendendo necessario il ricorso alla reiterazione dei cicli di stimolazione ovarica, ove il primo impianto non desse luogo ad alcun esito – esponeva ad un rischio inutile e inaccettabile la salute della donna. La Corte costituzionale (con la sentenza n. 151 del 2009) ha quindi dichiarato l’incostituzionalità del divieto di produrre un numero di embrioni superiore a quanto necessario ad un unico impianto. In conseguenza di ciò, ha anche introdotto una eccezione al divieto di crioconservazione, dichiarando l’incostituzionalità della legge nella parte in cui non consente il congelamento degli embrioni non impiantati e non prevede la loro conservazione fino al momento in cui l’impianto è compatibile con il rispetto della salute della donna. Il risultato di questo intervento da parte della Corte costituzionale è un sistema che lascia un ampio margine di discrezionalità ai medici e lascia sospeso, congelato, per un tempo indefinitamente lungo il consenso del padre alla fecondazione. Un tempo durante il quale le circostanze della vita e le condizioni di ciascuno possono cambiare rendendo del tutto inattuale il progetto di paternità.

Poteva la Corte fare meglio? Assolutamente no. I limiti del potere della Corte costituzionale sono scolpiti in una regola fondamentale della democrazia. La Corte non può modificare discrezionalmente una legge, perché questo compito spetta solo al Parlamento. Può solo eliminare le scelte discrezionali fatte dal legislatore contrastanti con la Costituzione. Può quindi solo togliere, non aggiungere.

Il legislatore invece potrebbe fare scelte politiche. Potrebbe prevedere che, nel caso di crioconservazione dell’embrione per un lungo periodo, la madre possa liberamente decidere di procedere all’impianto, ma il padre possa, in questa sola ipotesi, dichiarare la propria volontà di non essere nominato nell’atto di nascita. È una possibilità che la legge già attribuisce alla madre (ma non nella fecondazione artificiale) che non voglia assumersi l’onere della maternità, ma non voglia abortire. La stessa possibilità potrebbe essere data al padre se il tempo trascorso fra il momento del consenso e il momento dell’impianto giustifica il fatto che egli abbia cambiato idea.


*Carlo Rimini è ordinario di Diritto privato allUniversità di Milano



(Sette – Settimanale del Corriere della Sera, 12 marzo 2021)

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