5 Dicembre 2023
La Stampa

Il Generale e la nostalgia del patriarcato. Le femministe in piazza hanno salvato vite

di Chiara Saraceno


Ogni donna che compie anche un silenzioso atto di ribellione contro stereotipi che la inchiodano in comportamenti e destini che non sente confacenti a sé e alle proprie figlie, che insegna ai propri compagni, figli, colleghi che le donne non solo vanno rispettate, ma sono soggetti liberi e che un rapporto di coppia, ma anche di generazione, può fondarsi solo sul riconoscimento della libertà reciproca, contribuisce al cambiamento nei modelli di genere e nei rapporti tra uomini e donne. Non occorre scendere in piazza per fare questo. Ma perché il cambiamento sia riconosciuto nelle norme legali e sociali, occorre che ci si mobiliti collettivamente, che si scenda in piazza, che la ribellione privata diventi pubblica. Le «immense conquiste del femminismo storico» che qualche giorno fa su questo giornale Mastrocola ha dichiarato di apprezzare, le richieste del femminismo che Natalia Ginzburg, citata da Mastrocola, dichiarava di condividere in toto, pur non piacendole il femminismo, hanno potuto diventare almeno in parte realtà solo perché ci sono state donne che si sono mobilitate collettivamente, correndo il rischio delle semplificazioni degli slogan e anche del conflitto interno alle varie anime dei movimenti, oltre che dei costi sul piano personale e professionale. Legalizzazione della contraccezione, dell’aborto, eliminazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore, riforma del diritto di famiglia che finalmente ha dato attuazione al principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione ma ignorato per trent’anni, riconoscimento dello stupro come reato contro la persona anziché contro la morale, eliminazione delle restrizioni di accesso alle professioni, leggi contro le discriminazioni, estensione dei congedi di maternità a tutte le lavoratrici e persino il riconoscimento del diritto dei padri al congedo: sono tutti cambiamenti avvenuti in conseguenza della mobilitazione dei movimenti delle donne. Ovviamente, non basta scendere in piazza e non basta qualche slogan più o meno urticante per produrre cambiamento. Occorre un’azione costante, sostenuta da analisi adeguate, la costruzione di alleanze, tra donne e tra donne e uomini. Ma si parte sempre dalla denuncia di un’ingiustizia, di una situazione non tollerabile, che mobilita, diviene protesta collettiva e chiede risposte concrete, non occasionali.

I femminicidi e le violenze sulle donne in quanto donne sono appunto questo fatto ingiusto e intollerabile, non derubricabile a semplice patologia individuale e neppure genericamente imputabile a una supposta fragilità delle identità nelle società contemporanee, a una generica incapacità di reggere alle frustrazioni e ai rifiuti. Perché si tratta di uomini che aggrediscono e talvolta uccidono donne proprio in quanto donne, uomini che considerano le donne vuoi loro proprietà, vuoi a disposizione dei loro appetiti sessuali. Perciò, che piaccia o meno, chiama in causa modelli di genere e di rapporti tra uomini e donne insieme asimmetrici e fondati su quella che chiamerei una rivendicazione proprietaria di dipendenza da parte di uomini rispetto alle donne con cui stanno o vorrebbero stare. Il termine patriarcato non è (più) adeguato a rappresentare questa modalità di stare nei rapporti di coppia e neppure per rappresentare le persistenti diseguaglianze di genere in società (e politica, nonostante una presidente del Consiglio donna), anche se rimane come nostalgia per un mondo che non lo garantisce più, come traspare anche dall’intervista di Vannacci ieri su questo giornale. Il patriarcato ha perso da tempo le proprie basi sociali e normative. Ma è rimasta, per quanto minoritaria e non sempre esplicita, l’idea di un diritto maschile a essere soddisfatti nei propri bisogni e ad avere la precedenza nel mercato del lavoro, in politica, nelle diverse forme di riconoscimento sociale. Lo hanno da ultimo documentato i dati dell’indagine sugli stereotipi di genere. Persino la fragilità, l’incapacità di uscire da una dipendenza affettiva, possono venir ribaltate in rivendicazione a ogni costo e con ogni mezzo di un diritto a non essere lasciati. Ovviamente, non tutti condividono questi stereotipi. Anche tra chi li condivide non tutti diventano violenti. Ma costituiscono un terreno di coltura non solo per le discriminazioni, ma per pretese di controllo e l’incapacità ad accettare di non essere ricambiati nella propria richiesta di dipendenza e a riconoscere, pur con dolore, la libertà dell’altra. A differenza di Mastrocola, trovo importante che tra gli uomini sia iniziata una riflessione autocritica, senza farsi spaventare (o legittimare a non fare nulla) dalle denunce semplificatorie di patriarcato. Perché il problema è come favorire lo sviluppo di identità maschili e di relazioni tra uomini e donne basate sull’uguaglianza, il reciproco rispetto, incluso il rispetto della libertà dell’altra/o, contrastando sia l’assunto di un privilegio di genere (maschile) nel fare e nel non fare, sia la mancanza di controllo delle proprie pulsioni ed emozioni. È una responsabilità e un lavoro che certo devono avvenire nella quotidianità delle relazioni, in famiglia e fuori, da parte di uomini e donne. Ma che richiede anche una riflessione collettiva e ad ampio raggio, non limitata alla denuncia della violenza, cui devono partecipare, appunto, anche gli uomini. Non per dare lezioni o battersi il petto, ma per mettere in moto efficaci azioni di cambiamento. Allenare le proprie figlie a difendersi fisicamente dagli aggressori, come suggerisce Vannacci, non è sufficiente a proteggerle dalle discriminazioni, tanto meno a modificare l’immagine dell’uomo come potenziale aggressore.


Riportiamo di seguito il testo a cui Chiara Saraceno fa riferimento, pubblicato sulla stessa testata il 3 dicembre u.s. a firma di Paola Mastrocola.


“Non amo questo femminismo è un confronto armato tra i sessi”


Non so bene che cosa significhi, oggi, essere femminista. Credo che tutte le donne lo siano, nel profondo di loro stesse, e che conducano le proprie battaglie all’interno della cerchia di familiari e amici. Ma altra cosa è dichiararsi femminista e partecipare a lotte e cortei. Non tutte lo fanno, perché non tutte condividono le idee, le parole, gli slogan e i toni del femminismo (quello oggi dominante sui media). Mi chiedo cosa pensino, queste donne non dichiaratamente femministe, di fronte ai recenti efferati casi di violenza. Se sono, come me, turbate anche dal dibattito in corso, dai toni perentori, dalle idee agguerrite e monolitiche.

Penso alla massa delle donne che, sposate o meno, con figli o no, vivono con – o frequentano – uomini normalmente non violenti, penso alla vita di tutti i giorni, donne e uomini che cercano, insieme, di dividersi i compiti, affrontare i problemi, prendersi qualche sprazzo di felicità. Penso a queste donne che di colpo, da ogni parte e in ogni momento del giorno da quindici giorni (sui social, in tivù e alla radio), sentono dire che tutti i maschi sono corresponsabili della morte di Giulia Cecchettin, e potenzialmente portatori di una violenza che è in loro da sempre.

Penso che di colpo queste donne guardino con occhi diversi gli uomini che hanno intorno, in casa propria, in casa di amici, per strada; che osservino i gesti che compiono, gli sguardi che lanciano, i piatti che lavano o non lavano, le parole che usano e quelle che si dimenticano di usare. Osservano. Turbate e addolorate per i casi di stupro, femminicidio, violenza fisica e verbale tra le mura domestiche di cui la cronaca è piena, cercano ora di vedere quel che non hanno mai visto e di capire quel che non hanno mai capito, di scorgere la falla, la stortura, l’anello che non tiene. Cercano di vedere il mostro che può annidarsi nell’essere maschile. E si sentono smarrite, quasi in colpa per non aver visto e capito niente, percepiscono intorno un’aria di disapprovazione, o anche solo disagio e imbarazzo; quasi vi fosse, sopra di loro, un’astronave nemica fatta a forma di tribunale, gremita di sguardi accigliati e severi che le accusano.

Non so cosa faranno adesso, queste donne di colpo illuminate. E non so cosa faranno gli uomini che normalmente vivono intorno a queste donne non dichiaratamente femministe, e che si trovano improvvisamente di fronte altri uomini che corrono a professarsi femministi, a fare mea culpa, a dirsi unanimemente corresponsabili di ogni crimine per il solo fatto di essere maschi (trovo strabiliante questa autoflagellazione maschile collettiva che, seppur limitata agli ambienti intellettuali, declina in nuova forma l’ormai classico “singhiozzo dell’uomo bianco”).

Ho sempre apprezzato pienamente le immense conquiste del femminismo storico, divorzio e aborto in primis. Ma di fronte a questo nuovo femminismo dei media, che mi sembra piuttosto un fumoso “femministicamente corretto”, potrei usare pari pari le parole di Natalia Ginzburg, che in un articolo di cinquant’anni fa esatti, nel 1973, scriveva: «Non amo il femminismo. Condivido però tutto quello che chiedono i movimenti femminili. Condivido tutte o quasi tutte le loro richieste pratiche. Non amo il femminismo come atteggiamento dello spirito». E ancora: «Il sentimento essenziale espresso dal femminismo è l’antagonismo fra donna e uomo». Ecco. In questi giorni tremendi in cui siamo tutti quanti scossi dal femminicidio di Giulia Cecchettin, quel che non mi piace in quel che leggo e sento sui media è la granitica unicità della visione femminista, l’assertività stritolante delle tesi, la totale mancanza di dubbi e assenza di sfumature, il sistematico non-ascolto delle opinioni altrui, anche quando espresse da persone competenti in base ai dati e ai loro studi. Aleggia un enorme Pensiero Unico Femminista, un PUF che recita di continuo: i femminicidi dipendono dalla sopravvivenza del patriarcato; l’aggressività maschile non ha basi biologiche e dipende essenzialmente dall’educazione e dalla cultura; bisogna allevare i figli in modo neutro (no bambole alle femmine, no macchinine ai maschi), introdurre corsi di educazione sentimentale nelle scuole, vigilare sull’uso del linguaggio.

Eppure l’agire umano è così complesso, così astruso, e in particolare le ragioni dei più recenti efferati crimini sono così misteriose e variegate. Si dovrebbe avere una maggiore apertura, non un pensiero ermeticamente chiuso a ogni altra possibile visione delle cose. Provo a elencare ciò che il PUF non prende in considerazione: l’ipotesi che i femminicidi e la violenza dipendano anche dal consumismo e dalla cultura dei diritti; che l’indulgenza e iper-protezione in ambito famigliare e scolastico abbiano reso i ragazzi e le ragazze incapaci di gestire frustrazioni e sconfitte, di sostenere sacrifici e quindi anche di elaborare il lutto per un rifiuto della persona amata; l’ipotesi che il rischio di subire violenza sia riducibile con comportamenti più prudenti (come peraltro sosteneva già trent’anni fa Camille Paglia, femminista coraggiosa e controcorrente). Infine l’ipotesi che le scelte “non femministe” di una parte considerevole delle donne siano libere scelte e non sempre e soltanto frutto di condizionamenti; che se una donna si sente più felice a curare la casa e i figli, o andare a cavallo o coltivare piante grasse, ha tutto il diritto di farlo senza dover incorrere negli strali del PUF.

Non amo il femminismo perché non mi piace questa contrapposizione armata delle donne contro gli uomini. Non siamo due eserciti di cui l’uno deve far fuori l’altro, prendo in prestito ancora una volta le parole di Natalia Ginzburg: «Penso che tutte le lotte sociali debbano essere combattute da uomini e donne insieme». Non amo il femminismo perché non mi sono mai sentita una donna: cioè, non ho mai pensato che questa mia peraltro indubbia appartenenza al genere femminile potesse significare qualcosa di decisivo, così staccato dal resto. Non mi sono mai pensata staccata dal resto.

Mi sono sempre sentita soltanto un essere umano, che per caso era nata femmina, così come per caso era nata a Torino. Infine, non amo il femminismo (e tutte le ideologie) perché non tutto è chiaro e spiegabile del nostro vivere su questa terra. Voglio dire che, se anche debellassimo definitivamente il patriarcato, se annientassimo il capitalismo e tutti i peggiori incubi delle passate ingiustizie, non credo che la violenza sulle donne (e la violenza in generale) sparirebbe dal nostro mondo. Un margine di insondabilità, e quindi di nostra ignoranza, lo dovremmo sempre mettere in conto, di fronte alle tragedie. Tutto qui. E sopperire con la pietà. Quella pietà universale che, non so perché, mi riesce difficile scorgere nel dibattito attuale.


(La Stampa, 5 dicembre 2023)

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