di Marie-Lucile Kubacki
Suor Maria — i nomi delle suore sono di fantasia — è giunta a Roma dall’Africa nera una ventina di anni fa. Da allora accoglie religiose provenienti da tutto il mondo e da qualche tempo ha deciso di testimoniare ciò che vede e che ascolta sotto il sigillo della confidenza. «Ricevo spesso suore in situazione di servizio domestico decisamente poco riconosciuto. Alcune di loro servono nelle abitazioni di vescovi o cardinali, altre lavorano in cucina in strutture di Chiesa o svolgono compiti di catechesi e d’insegnamento. Alcune di loro, impiegate al servizio di uomini di Chiesa, si alzano all’alba per preparare la colazione e vanno a dormire una volta che la cena è stata servita, la casa riordinata, la biancheria lavata e stirata…. In questo tipo di “servizio” le suore non hanno un orario preciso e regolamentato, come i laici, e la loro retribuzione è aleatoria, spesso molto modesta».
Ma a rattristare di più suor Marie è che quelle suore raramente sono invitate a sedere alla tavola che servono. Allora chiede: «Un ecclesiastico pensa di farsi servire un pasto dalla sua suora e poi di lasciarla mangiare sola in cucina una volta che è stato servito? È normale per un consacrato essere servito in questo modo da un’altra consacrata? E sapendo che le persone consacrate destinate ai lavori domestici sono quasi sempre donne, religiose? La nostra consacrazione non è uguale alla loro?». Un giornalista romano che si occupa d’informazione religiosa le ha addirittura soprannominate «suore pizza», riferendosi proprio al lavoro che viene assegnato loro.
Prosegue suor Marie: «Tutto ciò suscita in alcune di loro una ribellione interiore molto forte. Provano una profonda frustrazione ma hanno paura di parlare perché dietro a tutto ci possono essere storie molto complesse. Nel caso di suore straniere venute dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina, ci sono a volte una madre malata le cui cure sono state pagate dalla congregazione della figlia religiosa, una fratello maggiore che ha potuto compiere i suoi studi in Europa grazie alla superiora…. Se una di queste religiose torna nel proprio paese, la sua famiglia non capisce. Le dice: ma come sei capricciosa! Queste suore si sentono in debito, legate, e allora tacciono. Tra l’altro spesso provengono da famiglie molto povere dove i genitori stessi erano domestici. Alcune dicono di essere felici, non vedono il problema, ma provano comunque una forte tensione interiore. Simili meccanismi non sono sani e certe suore arrivano, in alcuni casi, ad assumere ansiolitici per sopportare questa situazione di frustrazione».
È difficile valutare l’entità del problema del lavoro gratuito o poco pagato e comunque poco riconosciuto delle religiose. Anzitutto bisogna stabilire che cosa s’intende con questo. «Spesso significa che le suore non hanno un contratto o una convenzione con i vescovi o le parrocchie con cui lavorano» spiega suor Paule, una religiosa con incarichi importanti nella Chiesa. Quindi vengono pagate poco o per niente. Così accade nelle scuole o negli ambulatori, e più spesso nel lavoro pastorale o quando si occupano della cucina e delle faccende domestiche in vescovado o in parrocchia. È un’ingiustizia che si verifica anche in Italia, non solo in terre lontane».
Al di là della questione del riconoscimento personale e professionale, questa situazione pone problemi concreti e urgenti alle suore e alle comunità. «Il problema più grande è semplicemente come vivere e far vivere una comunità» prosegue suor Paule. «Come prevedere i fondi necessari per la formazione religiosa e professionale dei suoi membri, chi paga e come pagare le fatture quando le suore sono malate o hanno bisogno di cure perché invalidate dall’età. Come trovare risorse per svolgere la missione secondo il carisma proprio».
La responsabilità di tale situazione non è solo maschile, ma spesso è condivisa. «Ne ho parlato con un rettore universitario che mi ha raccontato di essere stato colpito dalle capacità intellettuali di una suora che aveva una licenza in teologia» ricorda suor Marie. «Lui voleva che continuasse gli studi ma la sua superiora si è opposta. Spesso il motivo addotto è che le suore non devono diventare orgogliose». Suor Paule insiste su questo punto: «Credo che la responsabilità sia anzitutto storica. La suora a lungo ha vissuto solo come membro di una collettività, senza avere quindi bisogni propri. Come se la congregazione potesse prendersi cura di tutti i suoi membri senza che ognuno apportasse il suo contributo attraverso il proprio lavoro. È inoltre diffusa l’idea che le religiose non lavorano a contratto, che sono lì per sempre, che non vanno stipulate condizioni. Tutto ciò crea ambiguità e spesso grande ingiustizia. È anche vero che senza contratto le religiose sono più libere di lasciare un lavoro senza troppo preavviso. Tutto ciò gioca su due fronti, a favore e contro le religiose».
Ma non si tratta solo di soldi. La questione del corrispettivo economico è piuttosto l’albero che nasconde la foresta di un problema ben più grande: quello del riconoscimento. Tante religiose hanno la sensazione che si faccia molto per rivalorizzare le vocazioni maschili ma molto poco per quelle femminili. «Dietro tutto ciò, c’è purtroppo ancora l’idea che la donna vale meno dell’uomo, soprattutto che il prete è tutto mentre la suora non è niente nella Chiesa. Il clericalismo uccide la Chiesa» afferma suor Paule. «Ho conosciuto delle suore che avevano servito per trent’anni in un’istituzione di Chiesa e mi hanno raccontato che, quando erano malate, nessun prete di quelli che servivano andava a trovarle. Dall’oggi all’indomani venivano mandate via senza una parola. A volte succede ancora così: una congregazione mette una suora a disposizione su richiesta e quando quella suora si ammala viene rimandata alla sua congregazione… E se ne invia un’altra, come se fossimo intercambiabili. Ho conosciuto delle suore in possesso di una dottorato in teologia che dall’oggi all’indomani sono state mandate a cucinare o a lavare i piatti, missione priva di qualsiasi nesso con la loro formazione intellettuale e senza una vera spiegazione. Ho conosciuto una suora che aveva insegnato per molti anni a Roma e da un giorno all’altro, a cinquant’anni, si è sentita dire che da quel momento in poi la sua missione era di aprire e chiudere la chiesa della parrocchia, senza altra spiegazione».
Suor Cécile, insegnante, da molti anni sta facendo esperienza di questa mancanza di considerazione. A suo parere, le suore di vita attiva sono vittime di una confusione riguardo ai concetti di servizio e di gratuità. «Siamo eredi di una lunga storia, quella di san Vincenzo de’ Paoli, e di tutte quelle persone che hanno fondato congregazioni per i poveri in uno spirito di servizio e di dono. Siamo religiose per servire fino in fondo e proprio questo provoca uno slittamento nel subconscio di molte persone nella Chiesa, creando la convinzione che retribuirci non rientri nell’ordine naturale delle cose, qualunque sia il servizio che offriamo. Le suore sono viste come volontarie di cui si può disporre a piacere, il che dà luogo a veri e propri abusi di potere. Dietro tutto ciò c’è la questione della professionalità e della competenza che molte persone fanno fatica a riconoscere alle religiose».
Suor Cécile poi aggiunge: «Al momento lavoro in un centro senza contratto, contrariamente alle mie consorelle laiche. Dieci anni fa, nel quadro di una mia collaborazione con i media, mi è stato chiesto se volevo davvero essere pagata. Una mia consorella anima i canti nella parrocchia accanto e dà conferenze di quaresima senza ricevere un centesimo… Mentre quando un prete viene a dire la messa da noi, ci chiede 15 euro. A volte la gente critica le religiose, il loro volto chiuso, il loro carattere…. Ma dietro tutto ciò ci sono molte ferite». Per suor Marie, si tratta di violenza simbolica: «È accettata da tutti sotto forma di tacito consenso. Alcune suore che vengono da me sono angosciate, ma non riescono a parlare. Allora dico loro: “Avete il diritto di dire la verità su quel che provate. Di dire alla vostra superiora generale quello che vivete e come lo vivete”. Talvolta di questa situazione è responsabile anche la superiora generale che, lungi dal mettere in discussione il sistema, lo convalida e vi partecipa attivamente accettando accordi svilenti per le suore».
Suor Cécile ritiene anche che le religiose debbano prendere la parola: «Da parte mia, quando vengo invitata a fare una conferenza, non esito più a dire che desidero essere pagata e qual è il compenso che mi aspetto. Ma, è chiaro, mi adeguo alle disponibilità di quanti me lo chiedono. Le mie sorelle e io viviamo molto poveramente e non miriamo alla ricchezza, ma solo a vivere semplicemente in condizioni decorose e giuste. È una questione di sopravvivenza per le nostre comunità». Il riconoscimento del loro lavoro costituisce anche, per molte, una sfida spirituale. «Gesù è venuto per liberarci e ai suoi occhi noi siamo tutti figli di Dio» precisa suor Marie. «Ma nella loro vita concreta certe suore non vivono questo e provano una grande confusione e un profondo sconforto». Alcune religiose ritengono infine che le loro esperienze di povertà e di sottomissione, a volte subite e a volte scelte, potrebbero trasformarsi in una ricchezza per tutta la Chiesa, se le gerarchie maschili le considerassero un’occasione per una vera riflessione sul potere.
(Osservatore Romano, 1 marzo 2018)