9 Gennaio 2017
Fainotizia

Il marketing del cancro al seno

a cura di Stefania Prandi

Sono sempre di più in Italia le donne che esprimono dubbi e critiche sulle campagne “in rosa” per sconfiggere il cancro al seno. In rete ci sono blog e gruppi Facebook, dalle Amazzoni Furiose ad Afrodite K, che criticano il fenomeno dei prodotti del “nastro rosa” (pink ribbon in inglese), venduti con la promessa di raccolte fondi e sensibilizzazione sulla malattia. Si usa il rosa per pubblicizzare maratone con sponsor, aziende di cosmetici, prodotti per la cura del corpo, detersivi, case automobilistiche, prodotti alimentari e perfino alcolici.

In rete e attraverso alcune associazioni che lavorano sui diversi territori, si sta formando un movimento di persone che si chiede quale sia la reale utilità di queste iniziative. Diverse le domande al riguardo. Ci si chiede se il ricavato di queste campagne vada davvero a supporto di programmi contro il cancro, come vengano usati i soldi, quale sia l’ammontare massimo che le aziende coinvolte donano alla ricerca. E poi, che tipo di ricerca?

Il movimento critico sul cancro al seno è cominciato 20 anni fa negli Stati Uniti. La prima a sottolineare il rischio di speculazioni è stata Barbara Brenner, per oltre 15 anni alla guida dell’organizzazione Breast Cancer Action. Brenner ha lanciato Think Before You Pink, progetto di riferimento critico sulle campagne rosa sul cancro al seno e la sua commercializzazione. La sua raccolta di scritti So Much to Be Done, University of Minnesota Press, è stata presentata di recente anche al Centro di salute internazionale dell’Università di Bologna.

I dubbi sull’efficacia e sul rischio di speculazione delle campagne in rosa sono al centro anche delle ricerche di Samantha King, sociologa della Queen’s University of Canada, autrice di Pink Ribbons, Inc: Breast Cancer and the Politics of Philanthropy (I nastri rosa spa: il cancro al seno e le politiche di filantropia), University of Minnesota Press. Il suo lavoro ha ispirato il documentario omonimo della regista e sceneggiatrice canadese Léa Pool, che indaga il marketing solidale e l’industria attorno alla malattia. Inoltre, la ricercatrice Gayle A. Sulik ha condotto uno studio storico ed etnografico, intitolato Pink Ribbon Blues: How Breast Cancer Culture Undermines Women’s Health (La depressione dei nastri rosa. Come la cultura del cancro al seno danneggia la salute delle donne), Oxford University Press.

Grazia De Michele e Daniela Fregosi, blogger, conosciute in rete rispettivamente come Amazzone Furiosa e Afrodite K, si occupano di tradurre e portare in Italia il materiale prodotto in inglese sull’argomento. “Non è un caso che sia stato scelto proprio il cancro al seno per il marketing” spiega De Michele. “Le donne, infatti, prendono le principali decisioni di acquisto nelle famiglie e il cancro al seno è una malattia che riguarda soprattutto le donne. Inoltre è una malattia che permette di mostrare semi femminili che non a caso nelle campagne pubblicitarie riguardanti il nastro rosa sono  sempre sani e nudi e questa è un’ulteriore forma di speculazione sui corpi delle donne”. Fregosi critica le campagne in rosa perché “distolgono l’attenzione sui reali problemi delle donne malate, che vanno dalla mancanza di tutele nel caso delle precarie e libere professioniste con partite Iva, alle conseguenze sulla sessualità e sulla fertilità”.

Le campagne in rosa vengono accusate di pinkwashing, termine inglese che descrive l’attività di società e organizzazioni che sostengono di avere a cuore la lotta contro il cancro al seno, che promuovono prodotti col nastro rosa e allo stesso tempo producono e vendono prodotti che in qualche modo sono ritenuti collegati al tumore. Una critica forte che ha evidenze scientifiche secondo Giuseppe Serravezza, oncologo e responsabile scientifico della Lilt (Lega italiana per la lotta contro i tumori) di Lecce. Secondo Serravezza sono diverse le sostanze inquinanti che aumentano la possibilità di sviluppare il tumore a causa della loro attività estrogeno mimetica.

All’interno del movimento critico sul marketing del cancro al seno c’è chi insiste sulla necessità di potenziare la ricerca sulle cause della malattia, che colpisce sempre più donne, e non soltanto sulle cure. Di questa opinione Marianna Burlando, psicologa e presidente Lilt Lecce e Chiara Bodini  dottoressa e ricercatrice del Centro di Salute Internazionale dell’Università di Bologna.

(Fainotizia.it, 9 gennaio 2017)

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