di Alessandra Ziniti
LAMPEDUSA – «Siete mai stati due ore chiusi in una stanza con uno schiavo? Io sì. E la stanza è rimasta colma del suo tremore e del suo silenzio». Luciana Breggia non ha timore di esprimere i suoi sentimenti, anzi ne rivendica il bisogno. Giudice civile ignota al grande pubblico, non avrebbe mai pensato che la sua sentenza che rigettava il ricorso del Viminale contro l’iscrizione all’anagrafe di un richiedente asilo l’avrebbe fatta finire nella lista nera dei magistrati schedati dallo staff di Matteo Salvini per le attività pubbliche che ne avrebbero connotato la «faziosità». La presidente della sezione immigrazione del tribunale di Firenze non è mai venuta meno alla consegna del silenzio e anche ora, che della sua esperienza di giudice
dell’asilo ha fatto uno spettacolo teatrale, non vuole tornare su quell’episodio. Ma alla fine è proprio da qui che parte: «Io ho sempre applicato le norme, naturalmente interpretandole con rigore e imparzialità. Ma il giudice ha una testa e un cuore, non è disincarnato. Avere un pensiero ed esprimerlo lo rende anzi più trasparente. Il giudice parziale, quello che sfoga nei suoi provvedimenti un sentire di parte, è un giudice muto». E allora eccola l’elaborazione culturale di due anni di diario di un giudice dell’asilo portata in scena, con un reading teatrale, davanti alla platea di magistrati, avvocati, esperti di immigrazione riuniti a Lampedusa da Area democratica per la giustizia e Asgi per confrontarsi sui temi del diritto della frontiera. Invece accade, così si chiama, perché nella sua stanza di giudice a Firenze Luciana Breggia ha sentito cose che pensava non sarebbero più accadute, dai campi di sterminio ai lager libici. Mai, ad esempio, avrebbe pensato di trovarsi di fronte a Ievohah, il re che non voleva diventare re. «Un ragazzo del Burkina Faso –
ricorda – che mi spiegò di essere fuggito dal suo villaggio per aver rifiutato di diventare re, come gli spettava per successione. “Da noi sarebbe bello diventare re”, ho obiettato. E lui: “Da noi invece no, sei un fantoccio nelle mani degli anziani del villaggio. Ti usano, ti chiedono di uccidere, io sono cristiano e non volevo uccidere nessuno”. Ho cercato di trovare riscontri alla sua storia, non ho trovato nulla, ma gli ho creduto. Era inserito in un contesto, parlava italiano, era vulnerabile. Mi sono misurata con l’impossibilità di ricostruire la sua storia e gli ho dato il permesso umanitario».
Ievohah, il re mancato, Maore, lo schiavo di Agades, Beauty, la ragazza stuprata e vittima di tratta, Latif, il bambino pakistano cucitore di palloni, Marsillah scappato dal Mali che pensa a tutto quello che ha perso. «Nella mia stanza sono passati centinaia di donne e uomini senza diritti, persone ridotte a cose. La mia stanza è una finestra su mondi lontani, geograficamente e culturalmente. Quando mi ritrovo faccia a faccia con loro sento un’enorme responsabilità. La legge ci chiede di valutare la credibilità, la plausibilità delle loro storie, raccontate da persone tremanti e stremate in lingue sconosciute. Momenti che affrontiamo da soli, con l’aiuto di interpreti improvvisati senza mediatori culturali. Cosa è plausibile e cosa no? Quanta fatica, quanta tristezza, quanto dolore». Questo spettacolo Luciana Breggia lo ha scritto per il giorno della Memoria. «Nuove forme di deumanizzazione», le chiama, cui bisogna opporsi anche se vesti la toga. E, mano sul cuore, saluta commossa il minuto di applausi che Lampedusa tributa al suo diario di un giudice.
(la Repubblica, 11 novembre 2019)