29 Aprile 2022
il manifesto

In Buriazia c’è chi aiuta gli uomini a non fare la guerra

di Luigi De Biase


A Ulan Ude, nell’estremo oriente russo, si trova un enorme cranio di Lenin. È di fronte all’edificio dell’amministrazione cittadina. In quel punto ha resistito per decenni, ma una parte giorni fa l’hanno coperto con una bandiera, e sulla bandiera hanno messo la lettera “Z”, il segno che distingue soldati e blindati diretti in Ucraina. Proprio a Ulan Ude e nell’intera Buriazia il ministero della Difesa recluta gran parte dei militari impiegati a Donetsk, a Lugansk, a Kherson e Mariupol. È quella che il capo del Cremlino, Vladimir Putin, ancora chiama «operazione speciale». Nei fatti si tratta di manodopera a basso costo trasportata a migliaia di chilometri di distanza per una guerra nel cuore dell’Europa.

«La nostra è una regione molto povera», ha detto al sito internet Republic.ru l’attivista buriata Aleksandra Garmazhapova: «In linea di principio per gli uomini esistono soltanto due alternative. Ci sono le occupazioni stagionali nelle province del nord. Oppure i contratti con l’esercito». Garmazhapova è cresciuta a San Pietroburgo e ha alle spalle anni di lavoro con voci importanti del panorama liberale russo, a partire dalla radio Eco di Mosca.

Oggi vive a Praga. Da lì dirige il Fondo «Buriazia libera», attraverso il quale è impegnata in importanti iniziative contro la guerra. «Siamo una piccola nazione, ma almeno cento dei nostri uomini hanno già perso la vita in Ucraina», ha detto Garmazhapova. Il numero lo hanno ricostruito attraverso fonti aperte: «Quando guardiamo ai dati personali, vediamo che molti di loro provenivano da villaggi. Erano ragazzi che cercavano soltanto un modo per tirare avanti. Molti avevano firmato contratti con l’esercito perché quella era la sola possibilità di ottenere un alloggio, o un mutuo per comprare una casa».

Il tema dei caduti è particolarmente delicato in Russia. Tutte le informazioni sono coperte com’è noto dalla legge approvata alla Duma all’inizio della guerra che prevede pene sino a quindici anni di carcere per chi pubblica resoconti diversi da quelli del ministero della Difesa. Ma i nomi e i volti dei soldati morti in guerra circolano ormai con una certa frequenza sui media locali. Aleksander Beregoshev, 18 anni, buriato dell’Altai. Yundun Dambaev, vent’anni, di Aghinskoe, nella Transbaikalia. Kirill Laptev, ventuno anni, yakuto.

Secondo Garmazhapova il ricorso in guerra a cittadini buriati segue anche un fattore per così dire psicologico. Da una parte lo stato maggiore preferisce impiegare uomini che non hanno legami personali e familiari con l’Ucraina. Ma dall’altra, «molti buriati hanno l’impressione che questa campagna offra loro l’opportunità di salire al livello degli altri cittadini russi. Sono pronti a dimenticare le discriminazioni che tutti subiscono o hanno subito a Mosca o San Pietroburgo, purché la lotta contro i “cattivi ucraini” permetta loro di essere riconosciuti dagli altri russi come pari». In questa fase, il fondo «Buriazia libera» è impegnato su tre diversi progetti. Il patrocinio legale gratuito agli uomini che non vogliono combattere. Un rapporto completo sulle vittime fra le minoranze etniche. E una lista di amministratori locali che potrebbero essere sottoposti a sanzioni. L’iniziativa di Garmazhapova non è l’unica. Esistono reti informali che hanno già permesso ad alcune centinaia di giovani in età di leva di lasciare la Russia e di evitare la guerra. Queste reti si basano sulla presenza di comunità buriate all’estero, in particolare in Mongolia, in Kazakhstan e in Kirghizistan. Connazionali generosi offrono loro un alloggio, qualche soldo e poi un lavoro. In molti casi sono intere famiglie a fuggire. Si preparano a mesi di totale anonimato, a condizioni di vita ancora più precarie rispetto a quelle che avevano in Russia, alla prospettiva di essere considerati traditori in patria e clandestini nel loro nuovo paese. È un processo migratorio che avrà conseguenze durature su tutta la regione.


(La Buriazia, il serbatoio di uomini per l’esercito di Putin, il manifesto, 29 aprile 2022)

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