30 Gennaio 2022
Corriere della Sera

In Italia cinque cicliste afghane: «Abbiamo ripreso la corsa»

di Marco Bonarrigo


Nasrin, vent’anni, e altre quattro giovani cicliste rifugiate in Italia raccontano i loro sogni, in bicicletta e non solo


«A fine luglio all’improvviso è cambiato tutto: uscivo ad allenarmi in bici – come sempre camuffata, i fuseaux lunghi, gli occhiali scuri, i capelli raccolti sotto il casco – e nessun uomo mi insultava o bloccava più con il solito sermone contro le donne che fanno sport. Non erano diventati più tolleranti: il terrore per l’avanzata dei talebani li distoglieva dalle molestie quotidiane».

La vita di Nasrin, vent’anni, nata e cresciuta nel Faryab afgano, 800 chilometri a nord-ovest della capitale, cambia la sera del 24 agosto scorso, dieci giorni dopo la presa del potere degli integralisti, con un messaggio sul cellulare: vieni subito a Kabul, forse c’è un volo per l’Italia. Nasrin come Fardina, Fatema, Shamila e Sabreya (i nomi sono stati modificati) in Afghanistan era ormai un bersaglio mobile: «Apparivo su giornali e sui social con la maglia della nazionale di ciclismo. Vincevo le corse. Per i talebani una donna che gioca a calcio o pedala è il simbolo intollerabile di una libertà contagiosa. Se prima i fanatici mi prendevano a schiaffi o sassate, a quel punto non avrebbero esitato ad uccidermi com’è successo a Mahjabin Hakimi, la pallavolista decapitata per strada. La sua colpa? Era bravissima e per questo molto popolare su Twitter».

Il 28 agosto, Nasrin, le sue compagne e undici familiari atterrano a Fiumicino dopo una settimana di peregrinare angosciante. «Prima di partire dovevo aggiustare il telefono – racconta Shamila, che ora sfoggia una timida ciocca di capelli colorata d’azzurro – e ho preso un taxi verso il negozio. I talebani ci hanno sbarrato la strada. All’autista, che tremava, hanno intimato di farmi scendere, a me di sistemare lo hijab secondo il precetto coranico. Ho proseguito a piedi, strisciando contro i muri».

Scampate per sole due ore all’attentato del 24 agosto all’Abbey Gate («Dall’interno dell’aeroporto sentivamo esplosioni e mitragliate, sembrava un film dell’orrore», racconta Fatema), le ragazze sono arrivate in Italia grazie a una formidabile gara di solidarietà e ora vivono protette in una località prealpina del Nord Italia dove il Corriere le ha incontrate. Oltre a studiare (in tre frequentavano l’università a Herat e Kabul), le ragazze continuano a coltivare il sogno di diventare cicliste di alto livello rappresentando il loro Paese ai Mondiali e alle Olimpiadi.

La catena di solidarietà che le ha portate in Italia nasce dalla determinazione feroce di Alessandra Cappellotto, cinquantaquattro anni, prima azzurra della storia a vincere un Mondiale di ciclismo (San Sebastian, 1997). Da anni sindacalista del movimento femminile internazionale, ha fondato con Anita Zanatta l’associazione Road to Equality per aiutare chi pedala nei Paesi emergenti. Ma l’emergenza questa volta ha dovuto gestirla vicino casa. «L’allarme è scattato il 14 agosto, con l’Italia sotto l’ombrellone e noi attaccate al telefono a chiedere aiuto. È stato decisivo quello dell’ex presidente della Federciclismo, Renato di Rocco: ha chiamato tutti i politici e i prefetti che conosceva, chiedendo posto sui voli militari. La selezione è stata dolorosa: sono salite a bordo le più giovani, i loro parenti più fragili e un neonato». Poi il trasferimento da Fiumicino al campo della Croce Rossa di Avezzano ai luoghi di prima accoglienza e alle case dove ora vivono.

[…]

Non c’è solo la bici nel futuro delle ragazze afgane. Fardina, vuole fare la veterinaria, Fatema l’architetta, Shamila l’avvocata. Tutte vorrebbero essere raggiunte da genitori, fratelli e sorelle, murati vivi in patria per evitare rappresaglie. Nasrin nel futuro vede solo lo sport, ispirata dai suoi due idoli: Lionel Messi e Peter Sagan. […]


(www.corriere.it/, 30 gennaio 2022)


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