20 Novembre 2019
Le Monde Diplomatique

In Russia, il dramma delle violenze domestiche

di Audrey Lebel


Il diritto russo, come prima era stato per la legislazione sovietica, non comprende una normativa specifica per le violenze coniugali. L’Urss, pur riconoscendo la parità tra uomo e donna, anche in campo penale, valorizzava la famiglia. Questo tema, oggi, ossessiona i reazionari, che si oppongono a qualsiasi proposta di miglioramento della legge.


Rischiano fino a vent’anni di prigione. Krestina, Angelina e Maria Khatchaturian, accusate di omicidio doloso premeditato, sono in attesa di processo per aver ucciso il padre, autore di aggressioni sessuali, stupri, percosse e lesioni sulle tre figlie, rispettivamente di 19, 18 e 17 anni all’epoca dei fatti. Era il 27 luglio 2018. La militante femminista Alena Popova, in risposta alle pene in cui incorrono le sorelle Khatchaturian, ha lanciato una campagna di denuncia delle violenze sessiste sui social network. Su Instagram, Vkontakte (il Facebook russo) e Twitter, milioni di internaute pubblicano la fotografia del proprio volto truccato a simulare ferite e lividi. Sedici milioni di donne subiscono violenze coniugali, stando alle ultime cifre dell’Ufficio federale di statistica dello Stato, Rosstat1, pubblicate nel 2012. Nel corso di questa inchiesta, che si basa su un campione rappresentativo di diecimila donne di età compresa tra i 15 e i 44 anni, una su cinque ha dichiarato di aver subito violenze fisiche da parte del proprio partner almeno una volta nella vita. Secondo il centro Anna, prima associazione del paese creata – nel 1993 – per aiutare le vittime, ogni sessantatré minuti una donna muore per le percosse subite dal compagno o dall’ex compagno, ossia più di 8.300 vittime all’anno.

Ambivalente eredità del diritto sovietico

La Russia è uno dei pochi paesi a non possedere una legge specifica a riguardo. Nel luglio scorso, per la prima volta, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha sanzionato la Russia per un caso di violenze coniugali. Ha imposto il versamento di 20.000 euro di danni alla querelante, Valeria Volodina, che riteneva di non essere stata sufficientemente protetta dalle autorità del proprio paese. La Cedu ha concluso che il vuoto giuridico e la mancanza di norme per la protezione denotavano un’incapacità sistemica di risolvere questa piaga. Dei quarantasette Stati membri del Consiglio d’Europa, solo la Russia e l’Azerbaigian non hanno ratificato né firmato, nel 2011, la convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Nella sua sentenza, la Corte dichiarava che le autorità russe «si mostravano riluttanti a riconoscere la gravità» del problema. Altri quattro casi simili sono in attesa di essere esaminati dalla Cedu. La mancanza di una legislazione specifica si spiega in parte con l’ambivalente eredità del diritto sovietico. L’Urss, alla sua nascita, era all’avanguardia in tema di diritti delle donne. Dal 1917, un decreto sullo «scioglimento del matrimonio» ammetteva il divorzio; lo stesso anno, i bolscevichi concedevano alle donne il diritto di voto. Nel 1920, l’Unione sovietica era il primo Stato a legalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg). Per liberare le donne dalle mansioni domestiche venivano creati asili nido, lavanderie e mense, su input di Aleksandra Kollontaj, prima donna ministra della storia contemporanea, che rivendicava in particolare l’abolizione dell’amore esclusivo. L’obiettivo era allora la distruzione della famiglia in quanto istituzione borghese. Ma, negli anni 1930, Iosif Stalin mette in discussione l’insieme di questi progressi. Mentre le donne faticano a trovare un compagno per via delle gravi perdite maschili durante la Prima guerra mondiale e la guerra civile, la liberalizzazione del divorzio non è sempre favorevole per loro. Le madri nubili, il cui numero esplode, sommergono i tribunali di denunce per il mancato pagamento degli assegni di mantenimento. Spesso decidono di abortire, sopraffatte dalla miseria. Le autorità si preoccupano per il calo della natalità. Questa realtà, a cui si accompagna la promozione nei ranghi del partito di alti funzionari provenienti dal mondo contadino, favorisce il giro di vite. «La questione femminile e la questione sessuale sono ufficialmente dichiarate risolte – riferisce la sociologa Mona Claro. – La famiglia sovietica ormai ha il dovere di essere stabile e fertile»2. Nel 1936, l’Ivg viene resa illegale e considerevolmente inasprito l’iter per il divorzio. Nel dopoguerra, questo movimento di evoluzione giuridica ritrova un punto di equilibrio tra il parziale ritorno alla tradizione rivoluzionaria e la preoccupazione di rafforzare il nucleo familiare attorno al bambino. Le autorità, di fronte all’eclatante divario tra diritto e consuetudini, allentano la stretta dopo la morte di Stalin. Nel 1955, viene nuovamente legalizzato l’aborto. Dieci anni dopo, sono semplificate le procedure per il divorzio. Tuttavia, il potere rimane ossessionato dalla questione demografica. «La società socialista attribuisce grande importanza alla protezione e all’incoraggiamento della maternità, oltre alle garanzie per un’infanzia felice», così affermano i Fondamenti della legislazione sul matrimonio e sulla famiglia, adottati nel 1968. Questo testo autorizza il divorzio tramite una semplice dichiarazione all’anagrafe… per le coppie senza figli. Sebbene la vita coniugale sia considerata come una questione privata in cui lo Stato ha il dovere di mostrarsi discreto, le cose cambiano quando la coppia ha prole. In questo contesto, le violenze contro le donne non sono attribuite a una strutturale dominazione maschile (ufficialmente sradicata). Per le autorità, sono imputabili a «“cattivi sovietici”, dediti all’alcool o promotori di tradizioni familiari risalenti a prima della Rivoluzione», sottolineano le sociologhe Françoise Daucé e Amandine Regamey. Invece, «la polizia considera le violenze coniugali come violazioni dell’ordine pubblico o come “scandali familiari” in cui l’intervento delle forze dell’ordine deve essenzialmente portare alla riconciliazione»3. Soprattutto in presenza di figli. La legislazione sovietica è molto avanti in materia di parità civile tra gli uomini e le donne – ricordiamo che in Francia si è dovuto aspettare il 1965 perché una donna sposata potesse esercitare una professione e aprire un conto in banca senza l’autorizzazione del marito. Inoltre, sottopone donne e uomini a pari misure in campo penale… Non sono tenuti in considerazione né il sesso della vittima, né la natura della relazione esistente (o esistita) con l’aggressore. Negli anni ’90, le organizzazioni femministe, in numero sempre crescente, si battono per l’adozione di norme occidentali nell’ambito della prevenzione delle violenze coniugali. La Russia, a seguito delle pressioni delle organizzazioni internazionali, per diverse volte mette in cantiere l’adozione di una legge speciale: negli anni ’90, poi nel 2012, e nuovamente nel 2014. Nel luglio 2016, la maggioranza governativa fa un timido passo avanti. Picchiare un familiare (consorte, figlio, fratello o sorella) diventa una circostanza aggravante (articolo 116 del codice penale). Il concetto di “familiare” mette l’accento sul soggetto che il legislatore intende proteggere: la famiglia, che va immunizzata contro la violenza, e non le donne. Al contempo, questa legge riduce le pene per le aggressioni commesse nei luoghi pubblici da uno sconosciuto (eccetto i casi di recidiva); un’evoluzione utile in un paese rinomato per il proprio rigido codice penale, con prigioni sull’orlo dell’esplosione.

«Non imitare gli eccessi dell’Europa occidentale»

Il testo di legge provoca grande rabbia nella Chiesa ortodossa e in altri difensori della famiglia tradizionale, che giudicano discriminatorie queste misure. Infatti, spiegano, mentre si evita la prigione a uno sconosciuto che aggredisce un passante per strada, un padre che corregge il proprio figlio può ritrovarsi dietro le sbarre. «I genitori responsabili sarebbero minacciati di conseguenze penali, fino a due anni di carcere [in caso di recidiva], per un qualsiasi uso della forza, foss’anche moderato e appropriato, nell’educazione dei figli», scrive con indignazione, sul proprio sito Internet, la commissione degli affari familiari del patriarcato di Mosca. È lo stesso registro utilizzato dalla senatrice Elena Mizulina, in prima linea nella lotta per la cancellazione del concetto di “familiare”, che denuncia quella che definisce la «legge dello schiaffo». Dopo aver proposto a più riprese delle misure per limitare l’accesso all’Ivg o per tassare i divorzi, dichiara che la violenza domestica non è «il problema principale nelle famiglie, diversamente da maleducazione, mancanza di tenerezza, di rispetto, soprattutto da parte delle donne. Noi donne, esseri deboli, non siamo ferite nei nostri sentimenti quando veniamo picchiate. Quando un uomo picchia la moglie, non c’è la stessa offesa di quando un uomo viene umiliato»4. Questo coro di proteste raggiunge il proprio obiettivo: a partire dal 2017, scompare ogni riferimento al “familiare”. Attraverso il proprio portavoce, il Cremlino fa sapere che «definire “violenze domestiche” alcuni gesti all’interno della famiglia,

[equivale a]

esagerare le cose dal punto di vista giuridico». Le associazioni femministe, invece, si preoccupano per una situazione che dal 2016 si fa sempre più critica. Certo, in teoria, un autore di violenze rischia una pena detentiva dai dieci giorni ai tre mesi in caso di recidiva; ma è raro che venga pronunciata una simile condanna. Poiché il legame familiare tra l’aggressore e la vittima non costituisce più una circostanza aggravante, le botte dei mariti violenti sono ormai passibili di una semplice sanzione di 5.000 rubli (circa 70 euro), o della pena minima, se le percosse hanno provocato il ricovero in ospedale. «La stessa cifra prevista per un parcheggio in sosta vietata o per aver acceso una sigaretta in un luogo con divieto di fumare», dichiara con rabbia Iulia Gorbunova, autrice per Human rights watch, nel 2018, di un rapporto intitolato «Potrei ammazzarti e nessuno mi arresterebbe». In caso di recidiva, la sanzione può raggiungere i 40.000 rubli (circa 560 euro), per lo più prelevati dal conto bancario comune della coppia… Sarebbe riduttivo affermare che, in Russia, non è previsto niente per proteggere le donne dai mariti violenti. Il centro Kitej, a circa due ore di strada da Mosca, in una località segreta per ragioni di sicurezza, accoglie le vittime di violenze domestiche. Dalla sua apertura, nel 2013, ogni anno questo rifugio privato ospita gratuitamente dalle trenta alle quaranta donne, accompagnate dai loro figli. Una goccia d’acqua nell’oceano; è lampante la mancanza di centri di accoglienza in situazioni di emergenza. Nel 2010, stando alle cifre ufficiali5, la Russia dispone di appena ventidue case di accoglienza. E le donne devono imperativamente essere domiciliate nella città in cui si trova la casa rifugio, impossibile per la maggior parte di loro. «Sono costretta a rifiutare costantemente delle ospiti, afferma con rammarico la direttrice di Kitej, Aliona Sadikova. Evito di indirizzarle verso le case rifugio gestite dai religiosi, o anche nei centri statali, perché promuovono un approccio completamente fuori luogo di riconciliazione, di perdono e di comprensione tra partner.» Nel 2019, le violenze coniugali sono ancora considerate come litigi nella coppia, e le reazioni dei poliziotti oscillano tra la negazione e lo scherno, la derisione e l’inerzia. Volodina, la prima ad aver vinto una causa contro la Russia alla Cedu, in occasione delle diverse denunce presentate alla polizia per le violenze che subiva si è sentita ripetere più volte che si trattava di una «lite tra innamorati». Al di fuori del deputato del Partito comunista della Federazione russa Juri Sineltchikov – il quale, nel corso delle discussioni precedenti l’adozione della legge alla Duma, ha ricordato che «le tradizioni russe non si fondano sull’educazione delle donne con la frusta, come alcuni cercano di farci credere» – sono stati pochi i parlamentari a indignarsi. Al contrario, il deputato del partito Russia unita Andrej Issajev ha assicurato di voler dimostrare come lui e i suoi colleghi non avrebbero «imitato gli eccessi cui assistiamo nell’Europa dell’ovest». Questo ritornello, in voga negli ultimi anni, contrappone i valori tradizionali russi a un occidente decadente che cercherebbe di imporre i propri usi sfruttando gli agenti all’estero. Lo stesso sostiene Vera Nikolaevna6, segretaria dell’Organizzazione russa di sostegno ai genitori. Ci assicura che, se il concetto di “familiare” non fosse stato eliminato dall’articolo 116, quest’ultimo avrebbe «spedito i genitori in galera per uno schiaffo, come avviene in Europa. Poi i nostri bambini sarebbero stati adottati da coppie gay europee». Pazienza, se questo avrebbe privato le donne vittime di violenze coniugali di un minimo di protezione. E poco importa se, nel dicembre 2017, il ministro dell’interno Vladimir Kolokoltsev ha ammesso che la sanzione pecuniaria non avrebbe garantito una prevenzione efficace per le violenze domestiche. Le prossime udienze delle sorelle Khatchaturian si terranno in autunno. È un’occasione per capire se questo parricidio potrà essere d’impulso alla legislazione. In attesa, i social network russi continuano a essere inondati da centinaia di utenti che si fotografano coperte di lividi e sangue per chiedere la fine dell’impunità.


(Traduzione di Alice Campetti)


1 – Rosstat, «La salute riproduttiva in Russia 2011» (in russo), (studio cofinanziato dal Fondo delle Nazioni unite per la popolazione), settembre 2012, www.gks.ru

2 – Mona Claro, «Interpréter et transformer? La “question des femmes” et la “question sexuelle” dans les sciences sociales soviétiques», Clio. Femmes, genre, histoire, n° 41, Parigi, 2015.

3 – Françoise Daucé e Amandine Regamey, «Les violences contre les femmes en Russie : des difficultés du chiffrage à la singularité de la prise en charge», Cultures & Conflits, n° 85-86, Parigi, 2012.

4 – Sul canale privato Dojd, 28 settembre 2016.

5 – Françoise Daucé e Amandine Regamey, «Les violences contre les femmes en Russie», op. cit.

6 – Ha preferito dare il patronimico piuttosto che il proprio cognome.


(Le Monde diplomatique – il manifesto, 20 novembre 2019)

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