14 Dicembre 2023
il manifesto

In Ucraina torna il gelo e resta la guerra, ma in molti rientrano

di Federica Iezzi


All’arrivo nella piccola stazione di Przemyśl, lungo il confine tra Polonia e Ucraina, ci aspetta un tè bollente. È nel “punto di accoglienza”, un angolino dedicato ai rifugiati ucraini che resiste fin dall’inizio del conflitto. È ancora buio. Le lunghe file davanti al binario 5 sono quelle dei passeggeri appena scesi dal treno proveniente da Kiev, che iniziano l’infinita trafila legata alle procedure di immigrazione.

Ma c’è anche chi torna indietro e aspetta l’orario di partenza del treno diretto a casa. Chi fugge in genere ha lo sguardo della paura, chi rientra quello della speranza. «Perché torni, Daryna?» chiediamo. «Perché devo aiutare le persone a casa. È meglio stare insieme», ci risponde, appesantita dal pensiero che la occupa. La guardiamo mentre si allontana tra il vapore bianco che si leva nell’aria e il suo zaino sulle spalle.

Nel freddo che ti trapassa le ossa e non ti lascia la capacità di pensare, file di persone e valigie tornano a casa. Tra gli alberi rimasti si guarda il quadrato di cielo fitto di stelle, nuvole alte e una luna quasi piena. 
L’Ucraina resta sotto i bombardamenti, gli abitanti vivono nell’incertezza e nel terrore. Non esiste alcun collegamento aereo con il mondo esterno e nei Paesi vicini si può andare solo in autobus, in treno o in macchina. Ma chi sta fuori vuole rientrare.

Cosa attende chi torna in Ucraina?

Dita che si muovono come antenne di insetti, cercano l’app del meteo sul cellulare che segna -4°C. Il freddo si poggia senza pietà sul viso e ti accompagna fino a che non si sale sui vagoni riscaldati. Presto una voce metallica annuncia la partenza verso Kiev. E i bambini iniziano a correre dentro il treno come se fossero nel parco giochi. 
C’è chi porta con sé sacchetti di plastica con il pane dentro. Chi si toglie strati di vestiti. Chi cambia il pannolino ai figli. Chi tiene in braccio il proprio gatto. E chi si aggrappa alle finestre dei corridoi, osservando distrattamente il paesaggio straniero che scorre come in un film.

Inizia il viaggio verso Kiev. Nella brulicante stazione di Ternopil’ sale Olena, con il suo bambino ancora nella pancia. Mentre fuori la neve imbianca i campi brulli, ci racconta che a Ternopil’ ci sono ancora tanti sfollati interni provenienti dall’est. Ha un maglione fucsia, un trucco appena accennato dello stesso colore della maglia e non sposta mai la mano dalla pancia. La guerra non le ha fatto perdere la sua bellezza di mamma.

«Ho una figlia di diciannove anni che sta combattendo a Avdiïvka – ci dice con gli occhi di un’anima annegata – Abbiamo una vita che non ci permettono di vivere». Le donne sono parte integrante delle forze armate ucraine. Ce ne sono 42.000 e 5.000 di loro oggi sono schierate sulle più attive linee del fronte: a Kupyans’k, Avdiïvka, Orichiv e Cherson.

È difficile raccontare i suoni che cercano di strappare il palcoscenico al silenzio, ma nel corridoio del treno corre una bambina bionda con un gioco musicale. È una musica mai sentita. È un suono che non si dimentica. 
L’ultima fermata del treno è quella di Kiev. Fino all’estate scorsa chi arrivava veniva accolto da un paesaggio spettrale di case sbarrate e cortili ricoperti di alberi. Nessuno sui marciapiedi. Nulla è cambiato fuori. Gli ucraini continuano a morire. Uno degli eserciti più grandi del mondo continua a bombardare. A cambiare oggi sono le domande. Quanto pericolo sono disposto ad accettare? Qual è la cosa migliore per la mia famiglia?

«Non esiste un posto sicuro in Ucraina. È difficile descrivere cosa c’è di così speciale nella parola casa. È dove tutto ti è familiare, dove conosci le persone», ci dice Olena, asciugandosi gli occhi con la manica della maglia.

Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, più di 5,5 milioni di ucraini sono tornati a casa, e non solo nelle grandi città come Kiev o Dnipro, ma anche in piccoli centri, compresi quelli a ridosso delle linee del fronte. I mercati al coperto riprendono vita dentro una città innevata. Scaffali pieni di pacchetti decorati attirano l’attenzione dei passanti che fanno video per TikTok.

I russi hanno fatto a pezzi Bachmut, si sono avvicinati ad Avdiïvka e hanno raso al suolo piccole città sconosciute, che non sono nemmeno più sulle cartine. Ovunque si sentono costantemente colpi sordi, lo stesso rumore di una porta che si chiude. La paura è diminuita al suono delle sirene antiaeree. Olena ci racconta che vive in un edificio moderno, ma che non ha il gas per cucinare. Ha comprato un fornello da campeggio così può cucinare quando manca la corrente elettrica. Aggira i blackout, assicurandosi di caricare il suo computer e il telefono quando ha l’elettricità.

E mentre il freddo invernale non dà tregua al Paese, crescono le preoccupazioni che la Russia possa riprendere gli attacchi su larga scala a una già fragile rete elettrica, ripetendo la medesima tattica utilizzata nel 2022. Dunque, invece di inviare smisurate colonne di carri armati, come ha fatto inizialmente, la Russia oggi si sposta a un ritmo glaciale lungo le 1.600 miglia delle linee di forza, combattendo di fatto una guerra d’attrito.

«Il mio bambino nascerà a Kiev», ci saluta così Olena.


(Il manifesto, 14 dicembre 2023)

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