27 Marzo 2024
la Repubblica

Incontro di civiltà. Ecco perché il femminismo fa bene all’Islam

di Widad Tamimi


Oggi ricorre la Giornata delle donne musulmane istituita nel 2017 per restituire loro voce nella battaglia per i diritti. A partire da una corretta interpretazione delle norme religiose.


Amani Al-Khatahtbeh nel 2017 aprì un blog con un investimento iniziale di sette dollari: ne nacque MuslimGirl.com, che lanciò la prima Giornata ufficiale delle donne musulmane, per amplificare le loro voci. Era il 27 di marzo e da allora questa giornata è stata dedicata a molte iniziative. Amani, cresciuta nel New Jersey all’indomani dell’11 settembre, aveva nascosto a lungo di essere musulmana per evitare giudizi negativi da parte dei suoi coetanei. Ora, pochi anni più tardi, MuslimGirl ha decine di migliaia di follower e sprona le donne musulmane a essere padrone della propria narrativa. Ma le sfide rimangono tante e per quanto la conversazione sulle donne musulmane in occidente ruoti soprattutto intorno a stereotipi, quali il velo o le pratiche di mutilazione genitale femminile, lo spettro è più ampio e molto più complesso.

Soprattutto è bene ricordare che sia la mutilazione dei genitali femminili che l’imposizione del velo sono, peraltro, aspetti fortemente influenzati dalla cultura dei luoghi. In Africa, infatti, la mutilazione è praticata sia dai musulmani che dagli animisti e dai cristiani, non per ragioni religiose ma di costume, dettate dalla volontà di esercitare il controllo sulla sessualità femminile. L’aver confuso questa pratica con un rituale religioso è il tipico esempio di un errore diffuso, quello o di radicalizzare una fede senza criticarne storicamente gli abusi o di esecrarla identificandola con gli abusi stessi.

Si pensi alla Sharia. In occidente, ma anche per alcuni musulmani, essa è diventata sinonimo delle leggi patriarcali. In realtà la Sharia, letteralmente “la via”, nella fede musulmana è la volontà di Dio rivelata al profeta Maometto. Il corpus giurisdizionale, invece, chiamato Fiqh, che significa “comprensione”, fa riferimento al processo dei tentativi umani di discernere ed estrarre le norme giuridiche dalle sacre fonti dell’Islam, vale a dire il Corano e la Sunna (la pratica del Profeta, come contenuta negli hadith, Tradizioni) e le “leggi” desunte da questo processo. Il Fiqh, come ogni altro sistema di giurisprudenza, è umano e legato a coordinate temporali e locali.

L’Islam oltre a non essere una religione dogmatica, si fonda sul rapporto diretto del musulmano con Dio. Non esistono intermediari e l’imam è una figura che fa da ponte mettendo a disposizione della comunità la propria conoscenza profonda dei testi sacri e assumendosi il compito di condurre la preghiera. Ogni fedele rimane però l’unico responsabile della propria comprensione e applicazione dell’insegnamento del Corano. Per questo la corretta lettura e la profonda conoscenza del Corano sono strumenti fondamentali di interpretazione dello stesso, grandemente influenzati dal livello di istruzione e purtroppo potenzialmente manipolati da chi ne detiene il dominio impedendo soprattutto alle donne, ma non solo, di essere primi interpreti della parola di Dio.

Per questa ragione, fin dai tempi di Huda Sha’arawi, nata in Egitto nel 1879, il femminismo musulmano esortò le donne a iniziare l’importante compito di leggere il Corano attraverso occhi femminili. Una delle persone che ha dedicato con passione la sua vita a questo compito è Amina Wadud, studiosa dell’Islam e che ha adottato nei suoi confronti un approccio riformista.

Lei l’hijab lo indossa solo nelle occasioni pubbliche: il Corano, dice, non impone il velo, ma raccomanda piuttosto la modestia dell’abbigliamento sia per l’uomo che per la donna. La ragione per cui lo indossa in pubblico è politica, rappresentando il velo il simbolo più eloquente dell’Islam in Occidente. Essendo diventato però, a causa dell’islamofobia, simbolo politicamente negativo, Amina ha deciso di indossarlo come segno di identificazione con le persone più oppresse, intendendo per oppressione anche il pregiudizio culturale dell’Occidente verso le donne musulmane.

Purtroppo è vero che l’intensificarsi dell’islamofobia, invece che aiutare le donne musulmane finisce per prenderle di mira e propone un dibattito su di loro senza includerle. Invece, proprio come non dovrebbe esserci dibattito sulle donne senza le donne, allo stesso modo non dovrebbe esserci dibattito sulle donne musulmane senza le donne musulmane.

Perché si giunga ad un’interpretazione egualitaria del Corano come primaria e unica fonte divina dell’Islam è fondamentale che le donne musulmane siano incluse nella formazione e nello sviluppo del pensiero islamico, e questa è, nei fatti, l’unica mossa rivoluzionaria che sarà in grado di costruire una nuova struttura delle società e delle comunità musulmane. È a causa di interpretazioni errate delle regole islamiche, se le donne vengono private dei diritti, della dignità, dell’onore e dello status conferiti loro nell’Islam e talvolta sono soggette a oppressione. Per prevenire la dominazione maschile e la subordinazione delle donne e assicurare loro i diritti così come sono garantiti dall’Islam, abolendone le distorsioni, è essenziale che le donne abbiano piena consapevolezza dei fondamenti dell’Islam. Nimat Hafez Barazangi, ricercatrice presso la Cornell University, ci ricorda con le parole del Corano che «Dio non cambierà le condizioni delle persone finché queste non cambieranno ciò che è in loro stesse»: qualunque cambiamento, cioè, nel contratto sociale tra i musulmani e l’Islam non può che essere innanzitutto interiore. Le studiose e le attiviste musulmane sanno e avvertono che prima ancora che la reinterpretazione del Corano è necessario un passaggio fondamentale: l’allargamento della libertà di cambiare la percezione stessa che la donna ha del proprio ruolo nell’interpretazione del testo sacro, che deve diventare da complementare e secondario a primario. Questo è il primo passo essenziale verso la realizzazione di diritti umani pieni e verso la tanto necessaria sfida all’autorità patriarcale che per quattordici secoli si è arrogata il dominio esclusivo dell’interpretazione del testo sacro nell’Islam. Si pensi a hazrat Khadija, la prima moglie del profeta Maometto: è stata il più lampante esempio di donna musulmana forte e indipendente con uno spirito imprenditoriale, di alto profilo in quanto a successo negli affari e a profondità spirituale. Khadija era più anziana del marito, fu lei a chiedergli di sposarla, la sua casa fu trasformata in una moschea, dove conduceva lei stessa la preghiera, come oggi fanno le donne imam.

Ma l’impegno delle attiviste musulmane nelle società islamiche non è cosa semplice. Presuppone un cambiamento nelle premesse culturali, nelle percezioni e negli posture di ruolo e saranno loro, le donne, come in ogni rivoluzione succede a chi la rivoluzione la fa, a pagarne il prezzo più alto.

La lotta delle donne musulmane pulsa e non sempre urla. Nonostante i movimenti integralisti abbiano avuto tra le conseguenze più negative quella di averne snaturato l’essenza più intima, l’Islam valorizza la sobrietà e la moderazione. Per questo le donne musulmane continuano il loro cammino di lotta e di emancipazione senza necessariamente sbraitare, ma con iniziative innovative come ad esempio nuove pratiche di conduzione della preghiera da parte di imam donne. Uno tra i più importanti momenti di confronto e sostegno per le donne musulmane nel mondo è Musawah, movimento globale per l’uguaglianza e la giustizia nella famiglia musulmana. Guidato da femministe islamiche, vi si rivendica l’Islam e il Corano per la donna attraverso interpretazioni progressiste dei testi sacri. Il patriarcato, si contesta, è una forma di idolatria: il fatto che gli uomini si pongano al di sopra delle donne contraddice di per sé la visione coranica di uguaglianza e giustizia, fondamento dell’Islam, e viola il requisito della esclusiva supremazia di Dio.

I dibattiti nelle riunioni di Musawah e più diffusamente tra le donne musulmane sono accesi e spaziano dalle esegesi delle Scritture ai dettagli più pratici della vita della donna nell’Islam. Il velo, per quanto preoccupi la società occidentale, è l’ultima delle questioni. Ben prima dell’abbigliamento della donna, assolutamente prioritario è difenderne i diritti specialmente in ambiti quali il divorzio, la custodia dei figli, la violenza domestica e, prima ancora, il diritto di studiare e l’indipendenza lavorativa, temi oggi cruciali per le donne di tutto il mondo, a prescindere dall’abito che indossano.


(la Repubblica, 27 marzo 2024)

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