10 Luglio 2021
La Verità

Intervista a Daniela Danna. «Bisogna proibire gli esperimenti per fare cambiare sesso ai ragazzi»

di Francesco Borgonovo


Daniela Danna, sociologa e docente universitaria, è una delle più attente osservatrici al mondo sui temi legati al genere, che da tempo affronta senza timore di sbriciolare i luoghi comuni. Per averne conferma basta leggere i suoi libri, tra cui il bellissimo La Piccola Principe. Lettera aperta alle giovanissime su pubertà e transizione (Vanda edizioni). Ed è proprio di transizione e di giovanissimi che abbiamo voluto parlare con lei.

A un certo punto del recente dibattito con Fedez, Alessandro Zan ha sostenuto che esistano bambini che fin da piccoli hanno chiarissimo quale sia «il proprio genere». Questi bambini, sostiene Zan, vanno avviati al percorso di transizione. Davvero è come dice Zan?

«Sarebbe così se ci fosse un criterio per distinguere quei bambini che preferiscono stare con amichetti o amichette dell’altro sesso e comportarsi come loro e che poi da grandi decideranno di diventare transessuali, da tutti gli altri. L’85% e anche di più, secondo le ricerche, di chi fa così da piccolo, poi da grande diventa gay, lesbica, bisessuale, o anche eterosessuale. Quando obietto che non hanno criteri di distinzione, di solito mi rispondono: “Ma c’è un team di esperti” che decidono. Per me i cosiddetti esperti possono anche essere cento, ma se non hanno nessun criterio di distinzione non dovrebbe essere loro permesso di fare esperimenti di blocco della pubertà e cose simili, su nessuno. Usano un farmaco ad azione ormonale, la triptorelina, per bloccare la pubertà. Lo ha incredibilmente permesso l’Aifa da qualche anno, in via sperimentale. Mi sembra stupido giustificare simili esperimenti sui corpi assolutamente normali con una presunta volontà dei bambini, o anche adolescenti, che notoriamente cambiano idea e spesso credono di aver trovato la soluzione ai loro problemi in qualche sostanza salvifica. Come gli ormoni artificiali che poi dovranno prendere per tutta la vita».

Non le sembra che si stia facendo troppa confusione sulle parole, sulla differenza ad esempio fra sesso e genere?

«“Genere” riguarda la vita sociale, le aspettative che abbiamo nell’avere a che fare con una persona di sesso maschile o femminile che ci sono dettate dalla cultura, che cambia. “Sesso” è la base biologica che da centinaia di migliaia di anni, dalla nostra origine distingue l’umanità nei due gruppi, i sessi appunto, necessari alla procreazione. Ci sono solo due gameti, ovulo e spermatozoo, per cui ci sono solo due sessi. Il genere è molto più variabile nelle diverse culture e nella storia. Io suggerirei di continuare nel solco dell’analisi femminista che ha liberato le donne dagli stereotipi di genere, che sono gli stereotipi sociali legati al nostro sesso. Se si usano le due parole come sinonimi, si nega che ci sia una differenza tra ciò che la società culturalmente richiede a maschi e femmine e la realtà biologica sottostante. Lo fanno spesso in inglese, dove sui documenti si indica il “gender ” – intendendo il sesso -, ma non è una ragione per introdurre questa confusione in italiano».

Credo che per affrontare questi temi sia fondamentale capire che cosa sia la disforia di genere. Qual è la sua posizione in proposito?

«Io non lo credo, per la ragione che “disforia di genere” è una diagnosi pigliatutto. Confonde l’avere comportamenti non stereotipati e problemi di accettazione del proprio corpo – chiaramente una cosa grave e non priva di cause sociali. Moltissime ragazze sono a disagio quando si sviluppano le mammelle, perché gli uomini e i ragazzi le molestano. Per avere una diagnosi di disforia di genere, secondo il manuale diagnostico dei disturbi psicologici statunitense che l’ha codificata, non è nemmeno necessario detestare i propri genitali, né volere essere dell’altro sesso, né stare male a causa di questo, perché il disagio psicologico deve essere “associato” e non causato da comportamenti non stereotipati. Insomma, non è una diagnosi di transessualità, è una diagnosi che serve a intervenire per normalizzare i comportamenti devianti rispetto alle aspettative su come deve comportarsi un maschio o una femmina. Come dice il nome “disforia di genere” (“portare male il genere”), i problemi sono con il genere, non con il sesso. Cioè con gli stereotipi sociali».

Che problemi ci sono con la diagnosi di disforia di genere?

«Ne parlo in modo approfondito in un articolo accademico recentemente pubblicato da AG About Gender, che ho intitolato “Il modello di affermazione del genere è ancora basato su un infondato studio olandese”. Oltre ai numerosissimi problemi metodologici dello studio di De Vries e altri intitolato Young adult psychological outcome after puberty suppression and gender reassignment del 2014, che mostrano come i risultati non siano affatto positivi (c’è stato anche un ragazzo morto per le conseguenze della chirurgia transessuale), c’è il problema fondamentale della vaghezza della categoria di “disforia di genere” che dovrebbe invece classificare con precisione coloro che (presumibilmente fin da piccoli, prima ancora di essersi sviluppati nel proprio sesso) trarranno beneficio dal cambiamento di sesso. Ma, come dicevo, se non sappiamo individuarli con precisione, è chiaro che intervenendo su minori che non necessariamente sarebbero diventati transessuali accettiamo la devastazione dei loro corpi da parte delle tecnologie mediche e farmaceutiche. Molti infatti, soprattutto ragazze, che sono la maggior parte dei minori che chiedono di cambiare sesso, se ne pentono dopo pochi anni».

La transizione di sesso è davvero l’unico modo di affrontare il disagio manifestato da alcuni minorenni (o adulti) nei confronti del sesso di nascita?

«Certamente no. Ci sono approcci olistici che mirano a far stare bene le persone con sé stesse e con il proprio corpo. L’idea di essere “nati nel corpo sbagliato” deriva dalle regole sociali su cosa può e non può socialmente fare quel corpo. Siamo un’unità di corpo e mente, ed è bene aiutare le persone a stare bene con sé stesse, nel proprio corpo, riconoscendo le forze socio-economiche che mirano invece a farci stare male per poi venderci qualche rimedio artefatto. Questo riguarda la transessualità come gli interventi di chirurgia estetica, come l’odio per le parti del proprio corpo che si giudicano e condannano sulla base dell’estetica prevalente… Fermo restando che una persona adulta decide per sé stessa, certamente possiamo discuterne sul piano culturale».

Mi chiedo: non si sta sovrapponendo l’ideologia alla ricerca scientifica?

«Certo: nessuno è in grado di distinguere quali minori aspiranti trans cambieranno idea da chi non lo farà».

Tutto questo non danneggia in primo luogo le persone che manifestano disagi?

«Una soluzione farmacologico-chirurgica su corpi in sviluppo sani è sicuramente un danno».

Insisto sulla questione: a me pare che siamo di fronte a una medicalizzazione forzata di tutte quelle che una volta si indicavano come «devianze» .

«Sono della stessa opinione. Ci sono moltissime testimonianze del fatto che famiglie profondamente conservatrici, anche fondamentaliste religiose, sono contente se il piccolo deviante si normalizza cambiando sesso. Meglio la transizione al maschile di una figlia lesbica che accettarla per quello che è. È noto che in Iran gay e lesbiche vengono impiccati. Per evitarlo possiamo però cambiare sesso con un’operazione pagata dallo Stato, di cui l’Iran detiene il record mondiale dopo la Thailandia».


(La Verità, 10 luglio 2021)

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