25 Novembre 2022
la Repubblica

Intervista a Greta Thunberg: ecco perché non mollo l’attivismo

di Riccardo Staglianò


La ragazzina è cresciuta. Rispetto alle prime foto che hanno formato l’imprinting nella nostra memoria, ora Greta Thunberg ha lineamenti e uno sguardo da adulta. Dalla cucina dell’appartamento a Stoccolma che divide con alcune amiche, dopo una lunga serie di appuntamenti cancellati last minute, risponde alle domande su The Climate Book (Mondadori), il ponderoso libro sulla crisi climatica che ha concepito coinvolgendo i principali esperti in circolazione. Essere interpellata come un oracolo è, per questa diciannovenne terribilmente precoce, tanto normale quanto per una qualsiasi coetanea discutere di quale maglietta abbinare ai jeans. Per tutta l’intervista starà molto attenta a non criticare le scelte, sempre più radicali, di altri sottoinsiemi del movimento ambientalista che ha battezzato. E che, a dispetto di alcuni titoli di stampa, non ha alcuna intenzione di abbandonare. Alla fine, segnalandole una contraddizione, riuscirò addirittura a strapparle una risata che restituirà all’attivista in servizio permanente effettivo una tenera dimensione umana.

Quando ha avuto l’idea di questo libro e quanto tempo c’è voluto per metterlo insieme?

Con la pandemia, non potendo più fare scioperi e marce, avevo del tempo a disposizione e ho ragionato su come metterlo a frutto. La scelta, per studiare meglio le cause del problema che volevamo risolvere, è stata di fare un libro che diventasse la destinazione per tutti quelli che volevano approfondire. Ci son voluti quasi due anni.

Come ha scelto gli esperti?

L’idea centrale era di mettere insieme storie ed esperti. Prima ho buttato giù una lista di temi. Poi ho chiesto a persone di cui mi fido di suggerirmi chi poteva spiegarli bene. Tranne rare eccezioni di gente che non aveva tempo, ho raccolto un’incredibile disponibilità di cui ancora ringrazio.

Ci sono cose nuove che ha imparato da questo lavoro?

Ho capito meglio che la crisi climatica è collegata con molte altre crisi. Che è anche una crisi del sistema economico, di oppressione del sud del mondo che ha meno responsabilità ma paga un prezzo più alto. Che l’approccio giusto non è quello binario ma piuttosto quello intersezionale, che analizza non solo l’oppressione ma i modi e le culture che l’hanno generata. Insomma mi ha aiutato a connettere i punti e ad allargare lo sguardo.

Esiste un consenso nella comunità scientifica sulle soluzioni da adottare contro la crisi del pianeta?

L’unico consenso è sul fatto che rapidissimamente dobbiamo abbandonare la nostra dipendenza dalle fonti fossili. Su come farlo ci sono ancora molte opzioni diverse.

Pensavo a soluzioni come la geoingegneria. Una volta era la scusa usata dai negazionisti per non mettere mano al nostro stile di vita. Oggi anche persone come Elizabeth Kolbert, che nel libro firma uno dei contributi, sono più aperte all’idea. Lei che ne pensa?

Che ancora oggi è spesso una scusa per non cambiare radicalmente le cose. Rischia di essere una grande distrazione. Solo i Paesi più ricchi potrebbero provare davvero a mettere in piedi sistemi del genere ma, se le cose andassero male, le conseguenze le pagherebbero maggiormente i Paesi poveri che non hanno avuto voce in capitolo nel decidere di realizzare, ad esempio, scudi di aerosol contro i raggi del sole.

La pandemia ha dimostrato che, volendo, grandi cambiamenti di abitudini possono accadere di colpo. Perché non succede per i comportamenti che nuocciono al clima?

Perché la gente percepisce le conseguenze come distanti, sia geograficamente che nel tempo. Ma è un errore: basta pensare alle conseguenze delle inondazioni su decine di milioni di persone in Pakistan o quelle che la siccità ha sul cibo di oltre dieci milioni nel Corno d’Africa. Il fatto è che i potenti non sono mai direttamente coinvolti. E le aziende più responsabili dei guasti mettono le loro enormi risorse a disposizione dei lobbisti che puntano a rimandare o negare la necessità di qualsiasi tipo di azione. Diffondendo, com’è successo in passato per altre industrie pericolose, dubbi e altri elementi di distrazione dell’opinione pubblica.

Oppure fingendo di aver capito la lezione, cercando di rifarsi una verginità verde, come succede nel cosiddetto greenwashing?

Le stanno provando tutte pur di non cambiare niente. Quella del greenwashing è una forza enorme, tanto più ora che le aziende energetiche hanno fatto profitti stratosferici. A voler cercare un aspetto positivo di questa vicenda, c’è che il greenwashing è la conseguenza della maggior consapevolezza della popolazione che un cambiamento è necessario. Prima non serviva perché i consumatori non si rendevano conto di quanto grave fosse la situazione.

La guerra in Ucraina poteva diventare un’occasione unica per spingere sulle rinnovabili, e invece registriamo nuovi record di uso del carbone. Non facciamo mai la cosa giusta?

Dei vari programmi di aiuti finanziari europei solo il 2 per cento è dedicato alle cosiddette energie verdi. È l’ennesimo fallimento. Mentre le compagnie energetiche fanno segnare profitti inediti.

I Fridays for future sono sempre stati un movimento pacifico: non teme che, in assenza di soluzioni reali, qualcuno potrebbe passare all’azione violenta?

È possibile. È molto comprensibile che le persone siano sempre più disperate. L’unico modo per evitare che ciò accada è di agire alla sveltissima prima che anche la società vada fuori controllo. D’altronde l’unica certezza è che abbiamo provato vari metodi di lotta ma nessuno ha ancora funzionato.

Come far saltare un oleodotto, libro del suo connazionale Andreas Malm, ha ricevuto attenzione in tutto il mondo. In che modo i vostri approcci divergono?

Noi forse siamo più concentrati sul capire le cause della crisi climatica. Le “azioni dirette”, senza spiegare le cause, a mio modo di vedere potrebbero confondere le persone. La ragione comprensibile dell’interesse però è la solita: sono sempre più quelli che vogliono un cambiamento, in un modo o nell’altro.

In questi giorni si parla molto di azioni dimostrative di attivisti che si incollano a un quadro di Goya o lanciano zuppa contro un Van Gogh. Non crede che, sfuggendo il nesso con la lotta ambientale, potrebbero alienarsi una parte dell’opinione pubblica?

Il rischio esiste. Ma io sono una persona singola ed è difficile dire agli altri cosa è giusto fare. Tanto più che sin qui non sappiamo ancora quale sia la strategia più giusta per cambiare le cose. Niente ha veramente fatto la differenza. Abbiamo bisogno di aiuto da tutte le parti. Ricordandoci però che, oltre a catturare l’attenzione dei media, bisogna recuperare la prospettiva intersezionale della lotta, che tiene conto di chi è in prima linea, degli indigeni che subiscono le conseguenze più gravi e così via.

Mentre noi parliamo, i governi del mondo discutono in Egitto alla Cop27. In passato ha avuto parole dure nei confronti di queste riunioni, l’ormai famoso “Bla, bla, bla”. C’è qualcosa che potrebbe farle cambiare idea?

Non credo che sia utile concentrarsi su questi eventi. Ricordo solo che l’industria fossile ha inviato seicento lobbisti che sono più di quanti ne hanno mandati, messi insieme, i dieci Paesi che hanno subìto l’impatto più serio della crisi climatica. Non riescono nemmeno a mettersi d’accordo sul minimo sindacale, ovvero un fondo per aiutare chi ha subìto i danni climatici maggiori. E quest’anno è forse anche peggio, dal momento che i margini di movimento degli attivisti sul terreno è ancora più ristretto.

Un rapporto del think tank Germanwatch ha appena detto che nessun Paese riuscirà a mantenere l’aumento della temperatura sotto il grado e mezzo che era stato indicato come traguardo. Cosa prova di fronte a queste ammissioni?

Bah, ammetterlo è già meglio di mentire o impegnarsi in acrobazie di greenwashing. Essere chiari è il primo passo per capire quanto più ambiziosa dev’essere la nostra risposta al problema. So che è un’asticella bassa, ma almeno è un punto di partenza.

Tra le soluzioni individuali che indica ci sono il volare meno e il diventare vegetariani. Altre contromisure pratiche?

Sono solo due esempi. Se sei un politico hai responsabilità molto più ampie. Idem se, come me, hai una piattaforma grazie alla quale le persone ti ascoltano. Più in generale le cose che tutti possono fare sono istruirsi il più possibile sul tema e poi diventare, in qualsiasi forma, attivisti, nel senso di condividere queste informazioni. Solo se questa consapevolezza è sempre nella testa delle persone, allora è possibile che si formi l’effetto valanga di cui abbiamo bisogno per cambiare lo status quo.

Quanto al non volare, da giornalista faccio dell’andare a vedere ciò di cui scrivo un punto d’onore. I pezzi e le interviste dal vivo, piuttosto che via Zoom come questa, vengono meglio. Non crede che anche lei potrebbe avere un impatto maggiore se raggiungesse più posti in aereo piuttosto che viaggiare solo in treno o nave?

Forse il caso del reporter è diverso, ma una come me non ha davvero bisogno di essere sempre sul campo, dal momento che gli attivisti locali possono fare un lavoro buono quanto il mio. Mi sembra di essere più utile alla causa con questo gesto simbolico dell’astenermi da voli inutili. In ogni caso l’80 per cento della popolazione mondiale non ha mai messo piede su un aereo, e quindi dire che anche noi privilegiati ne possiamo fare a meno forse serve a comunicare che siamo dentro a un’emergenza piuttosto seria.

Che impatto ha avuto sulla sua vita essere diventata in soli quattro anni uno dei nomi più riconoscibili del mondo?

Un impatto enorme. Praticamente ogni ora che sono sveglia la dedico a essere un’attivista. La mia vita è cambiata completamente. Però questo le dà anche un senso che prima ignoravo.

Recentemente avrebbe detto di essere pronta lasciare il suo ruolo di portavoce informale del movimento ambientalista a qualcun altro: si è stancata?

(Sorride). Non so neanch’io bene come dalla dichiarazione originaria siamo arrivati a quel titolo rilanciato da molti siti e giornali. Ciò che io ho veramente detto è che c’è bisogno di mettere il megafono nelle mani delle persone più colpite direttamente dalle conseguenze della crisi. In altri termini, serve decolonizzare il movimento per la lotta climatica. Sono un’attivista e intendo continuare a esserlo. Continuo a fare gli scioperi del venerdì e questo libro è solo un altro modo di lottare. No, non ho alcuna intenzione di fare un passo indietro.

Cosa immagina per il suo futuro prossimo? Non prende in considerazione di entrare in politica?

No, non è la cosa giusta per me. Mi diplomerò a primavera, dopo aver saltato un anno, e non ho assolutamente idea di cosa farò dopo. L’unica certezza è che voglio essere un’attivista e portare un cambiamento reale.

Il suo è un librone pesante che è stato stampato e spedito nel mondo. Ma anche la sua versione elettronica, che pesa sui 200 Mb, è l’ebook più pesante in cui mi sia mai imbattuto. Non potevate optare per qualcosa di più leggero, con un’impronta di carbonio più bassa?

(Ride di una risata che non so dire se più imbarazzata o liberatoria.) Nel volume propongo un ripensamento di consumi con un impatto decisamente più rilevante di quello dei libri, che almeno servono per acquisire consapevolezza. E sì, è un volume pesante, ma questo lo si deve perlopiù ai grafici che sono davvero magnifici e, si spera, faranno capire molte cose a molte persone. È vero, certo, che anche le cose digitali sono energivore e dunque hanno un impatto sul clima. Ma se la tua casa va a fuoco la prima cosa che fai è scappare, e solo in un secondo momento pensi ai dettagli che, altrimenti, rischiano di confondere rispetto al metterti in salvo.

Sia nel suo Paese che nel mio le ultime elezioni hanno visto il successo di forze di destra che, storicamente, non hanno dimostrato grande sollecitudine nei confronti del clima: ne è preoccupata?

Posso dire che sia destra che sinistra sono stati, sin qui, molto lontani dal trovare una soluzione al problema. Il nostro precedente governo progressista si è distinto per una fenomenale attività di greenwashing. Il nuovo, però, come prima azione, ha dimezzato il budget per l’ambiente fino al 2025. E ha abolito il ministero per l’Ambiente, inglobandolo in un altro. Sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Quindi sì, entrambi sono gravemente insufficienti. Ma le differenze ci sono. Eccome.


(Il Venerdì – la Repubblica, 25 novembre 2022)

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