8 Gennaio 2021
Corriere della Sera - Sette

Intervista a Louise Glück

di Luca Mastrantonio


Nella prima metà del 2020 il coronavirus ci ha costretti a vivere chiusi in casa. Abbiamo dimenticato il mondo di fuori: era primavera, non l’abbiamo quasi vissuta. Poi, d’estate, abbiamo ripreso a uscire, e vagando anche solo per pochi chilometri lontano dalla caverna, ci siamo dimenticati la vita reclusa. A ricordarcela è arrivato l’autunno, poi l’inverno con i suoi piccoli lockdown. Abbiamo vissuto un anno da Persefone (per i latini è Proserpina), la ninfa rapita dal dio dell’oltretomba, Ade: passa metà dell’esistenza nell’al di là, raggelando il mondo, e l’altra metà, trascinata dalla madre Demetra, sulla Terra, dove risveglia la vita. Il mito che spiega il ciclo delle stagioni è al centro di uno dei due libri con cui il Saggiatore inaugura l’opera di Louise Glück. In Averno, del 2006, lo scontro tra caducità umana e ciclicità della natura si incarna proprio in Persefone, mentre LIris selvatico, del 1992, canta l’unione mistica tra una donna e il suo giardino, dove i fiori parlano con lei e lei parla con Dio, nel confronto tra bene e male, morte e rinascita.

In Italia molti di noi hanno scoperto Glück solo dopo il riconoscimento dell’Accademia di Svezia, e tanti devono ancora scoprirla (il Saggiatore, con la traduzione di Massimo Bacigalupo, ne pubblicherà l’opera omnia, a partire da questi due libri intercettati anni fa da Giano e Dante & Descartes).

Ma Louise Glück (classe 1943) in America è una delle voci più apprezzate e premiate da pubblico e critica. La sua poesia è dura e spietata, personale ma universale, autobiografia che usa le maschere del mito. I suoi versi parlano con i morti, fan parlare i morti, le piante, persino dio. Si sente vicina ai poeti del passato e scrive pensandosi letta dai posteri.

Dall’innevato giardino dell’abitazione a Cambridge, Massachusetts, dove ha ricevuto il Nobel, ha omaggiato William Blake ed Emily Dickinson, maestri nell’esprimere la solitudine dell’essere umani. Non ama le interviste, ma ha accettato di parlare con l’Italia, patria dell’amato Dante (omaggiato nella raccolta «Vita nova»), e con 7 per raccontare l’Averno del 2020 agli sgoccioli: l’abbiamo chiamata il 21 dicembre.

Nel 2020 siamo stati tutti Persefone. Il mito si è fatto cronaca. Lei come vive la pandemia?

«Cielo! Non c’è stato nessun evento nella mia vita paragonabile a quanto sta accadendo. Forse lei non ne è al corrente, ma sono una persona socievole che fa grande affidamento sui propri amici e parenti. Le attuali restrizioni sono terribili. Ieri ho visto le mie nipotine, prima non le avevo ancora incontrate, a causa della pandemia. Adesso io sono in quarantena, qui a San Francisco, ho viaggiato da Boston, ed è pericoloso per una persona della mia età. Con mio figlio Noah e le nipotine abbiamo tenuto la distanza di due metri, con la mascherina. È straziante ma è giusto. Non avrei rinunciato per niente al mondo a vedere loro. Ho pure investito parte del Nobel».

In che senso?

«Era difficile e pericoloso viaggiare in aereo per arrivare qui. Così ho utilizzato una parte del denaro ricevuto con il Nobel per noleggiare un piccolo aereo privato. Quando mai nella mia vita avrei pensato di dover ricorrere a una simile soluzione? Era però più sicuro e poi chi dovrebbe utilizzare questo denaro? Adesso, però, ne ho meno».

Cosha detto a suo figlio quando ha saputo di aver vinto il Nobel?

«L’ho chiamato subito, anche se per lui, che era qui in California, io invece in Massachusetts, era notte. Ha alzato il telefono per rispondermi e beh, lui ha ricevuto una chiamata a notte fonda dalla madre anziana, non è difficile immaginare cosa abbia provato! Avrà pensato che fossi stata ricoverata, che avevo il Covid magari ma non doveva essere così grave, perché ero pur sempre viva, lo stavo chiamando. Gli ho detto: “Ho vinto il Premio Nobel”. Lui è rimasto in silenzio e poi ha risposto: “È incredibile!”. Ha fatto una pausa e ha aggiunto: “No, è credibile.” E io ho pensato che fosse una cosa bellissima da dire. Anche perché lui è una persona che non ha nulla da spartire con la vita letteraria. Ha intrapreso una strada molto diversa».

Entrambi i libri che escono in Italia sono dedicati a suo figlio Noah. Che cosa ha rappresentato per lei la maternità?

«La nascita di mio figlio mi ha fatto crescere. Un’esperienza che mi ha dato tanto e mi ha sottoposta a molte forzature. All’improvviso, diventi responsabile di un esserino e, per un paio di anni, sono stata una mamma single. È uno shock, ma è stata la decisione migliore che abbia mai preso. Anche sul lato artistico: sarei stata una poetessa molto più tediosa senza la nascita di un figlio. E senza i miei studenti, i loro testi, non avrei superato il mio primo grande blocco di scrittura».

Ne LIris selvatico lei fa parlare le piante, dal trifoglio al papavero. E Dio le parla: com’è possibile concepire la voce di Dio?

«Tra le storie che mio padre mi raccontava, a me e mia sorella, oltre ai miti greci, c’era quella di Giovanna d’Arco… Senza la parte del rogo. Ci raccontava che lei sentiva le voci. Per me era una cosa normale, immaginare voci nel silenzio».

Che storie raccontava a suo figlio per addormentarlo?

«In realtà cantavo. Avevo un’estensione vocale limitata, ma il dottor Spock, mentore della pediatria, sostiene che i bambini amano sentir cantare la mamma, al di là delle capacità. Ero felice, perché amo cantare. Così gli cantavo canzoni dall’American Songbook, le “torch song”, The Red Red Robin… raramente vere ninna nanna. Un giorno, lui aveva due anni e mezzo e io stavo intonando il mio medley, Over the Rainbow, probabilmente, si è portato le dita alle labbra e ha detto: “Shhh!”, aggiungendo: “Mamma, non sai fischiare?” La mia carriera da cantante è finita lì».

Lei usa i miti antichi per universalizzare il suo vissuto. Come Persefone ha patito una madre dominante, Demetra. Per le traversie coniugali c’è Ulisse con Penelope, nel libro Meadowlands. Quale mito greco userebbe per raccontare suo padre?

«Per mia madre, verso cui nutrivo sentimenti concreti e ostili, era facile trovare un corrispettivo nei miti, per mio padre no. Lo ammiravo immensamente: mi sentivo simile a lui e diversa da mia madre, con cui spesso non riuscivamo a capirci. Con mio padre era facile, mi sentivo sangue dello stesso sangue, il carattere era lo stesso. Mia madre era forza, mio padre intelletto. Se dovessi associarlo al mondo dei miti greci, direi che era Zeus e io sono nata dalla sua mente. Questa scelta, tuttavia, non mi soddisfa completamente perché non spiega come mai mio padre non appaia mai nelle mie poesie associato a parafrasi mitologiche. Era una figura meno allegorica forse».

Lei ha sofferto di anoressia, che le ha creato problemi anche a scuola. Grazie alla psicanalisi, ha superato questi conflitti. Poi con il suo secondo marito, John Dranow, ha investito in una scuola di chef. Come spiega questa ambivalenza verso il cibo?

«La mia anoressia era legata alla ricerca disperata di controllo sulla mia vita. Sono stata fortunata a essere seguita da un ottimo analista che mi ha fatto comprendere quanto fosse disperata la mia esigenza di controllo, che ho imparato ad esprimere in altri modi. Spesso si diventa anoressiche pur essendo affascinati dal cibo. Ripudiarlo è un sacrificio enorme. Allo stesso tempo, però, le anoressiche si sentono, io mi sentivo, in guerra con l’ingordigia, temendo la destinazione cui può condurre. Negli anni in cui mi sono lasciata morire di fame non ho mai smesso di pensare al cibo. Mai! Non a caso ho imparato tantissimo sul cibo in quegli anni. E mia madre era una cuoca spettacolare! Mi mancava il cibo e sono stata felice di riaccoglierlo nella mia vita. Conosco l’Italia attraverso la poesia e i libri di ricette».

È mai stata in Italia?

«Un paio di volte. Prima dei miei trent’anni, a Bellagio, alla fondazione Rockfeller. Poi ho passato una settimana a Todi, da amici».

Il primo viaggio che vorrebbe fare finita la pandemia?

«In Svezia, per gratitudine».

Ho letto sulla New York Book Review di dicembre la poesia Winter journey, che mescola ricordi dinfanzia e tempo presente: c’è malinconia ma anche ironia, lei beve con sua sorella del gin liscio, senza ghiaccio, e le infermiere si congratulano perché lo scambiano per acqua e dicono brave, idratatevi! Il viaggio vale più come esperienza reale o mentale?

«Sono l’unico membro della mia famiglia che odia viaggiare. Quella poesia comunque fa parte del prossimo libro, Winter Recipes from the Collective. Ma non si tratta di ricette di cucina».

Ho letto in una recente intervista che scrivere per lei è prendersi una rivincita sulle circostanze. Sulla sfortuna, sulle perdite, sulla sofferenza. Penso alla sorella che è morta prima della sua nascita e ai versi di Nostos.

«La sua morte non ha fatto parte della mia esperienza, ma la sua assenza sì. Quei versi riguardano le morti che lasciano un segno indelebile nella nostra infanzia così che ogni eventuale revisione delle stesse, attraverso la poesia, risulta ostica poiché non c’è spazio per discussioni o svolte. Viene data una forma permanente a una impressione. Non si tratta della natura stessa della memoria, felice o infelice, ma piuttosto della renitenza della memoria. Insomma, sto eludendo la risposta alla sua domanda».

C’è una rivincita poetica che sente particolarmente riuscita?

«Ci sono stati cinque anni in cui ho sofferto per un trauma molto serio da colpo di frusta. Era prima di Averno, il dolore è stato così forte che non mi coricavo, non mi concentravo e non sapevo come avrei vissuto il resto dei miei giorni. Poi, il dolore si è affievolito e sono riuscita a scrivere quella che ritengo essere una delle mie poesie migliori, inserita nel volume Averno, e si intitola Ottobre. Ciascuno può avere una lettura diversa, ma so che l’elemento catalizzatore è il colpo di frusta, che nella mia vita era una desolazione per un periodo molto lungo. Poi, ho scritto questa poesia di cui andavo estremamente fiera e mi sono ritrovata a pensare a quale fortuna fosse stato quel colpo di frusta. Senza di esso non l’avrei scritta. Sono le cose di cui ho bisogno. Si sviluppa gratitudine verso le catastrofi che ti colpiscono.

Ottobre è una poesia di terrore e violenza che ci cambia nel profondo, di corpi che non sono stati salvati, di un diffuso senso di insicurezza, dellestate che non sopravvive allestate, di voci ormai perdute. È vero che lha scritta per l11 settembre 2001?

«È stata scritta in quel periodo e io stessa stavo vivendo quel periodo sulla mia pelle. Però, non avevo iniziato a scrivere con l’intenzione di trattare l’11 settembre. Allo stesso modo non è l’intenzione di parlare di Covid che mi spinge a scrivere oggi. Mi appare, tuttavia, chiaro che le mie poesie riflettono il periodo che hanno attraversato. Quindi, in questo senso, la risposta è sì, la poesia tratta dell’11 settembre, tratta del crollo del mondo così come lo conoscevamo».

Ricorda le circostanze in cui ha appreso dellattacco alle Torri?

«Eccome se me lo ricordo. Ero proprio qui, a San Francisco. Mio figlio si era appena trasferito in California. Era iniziato il trimestre alla Williams, la scuola dove insegnavo, e avevo ottenuto il permesso per intervenire a una sessione di letture a San Francisco, per passare un weekend con Noah che stava attraversando un periodo difficile. Dovevo parlare con l’analista e scrittore inglese Adam Phillips nella serata del 10 settembre e l’11 sarei dovuta rientrare per tornare a insegnare. Uscita dalla stanza dell’hotel, scesi con i bagagli e notai qualcosa di strano. Una donna che avevo già visto in hotel stava varcando l’ingresso principale con le valigie e con un’aria molto perturbata, annunciando a voce alta che il suo volo era stato annullato. Immaginai che San Francisco fosse sottoposta a qualche chiusura, augurandomi che non riguardasse il mio volo. Dissi qualcosa e la donna replicò che l’intero aeroporto era stato chiuso. Il personale al front desk fece una chiamata, confermando l’annullamento. Ritornai nella mia stanza senza sapere cosa fare e squillò il telefono. Non credo avessi il cellulare all’epoca. Comunque era mio figlio che mi chiese: “Sai cosa è successo?” Risposi di no e lui continuò: “Accendi il televisore, ma resta dove sei. Vengo a prenderti”». «È stato… ero terrorizzata. Era strano trovarsi sulla costa occidentale perché non stava accadendo qui. Qui, a San Francisco, sembrava tutto come al solito, ma mia sorella era a New York, avevo amici stretti lì, non sapevo come stessero, il terrore era concreto. Sono restata bloccata. Ritornavo all’hotel ogni giorno e non era assolutamente chiaro chi avrebbe pagato il conto, oltre le due notti previste dagli organizzatori dell’incontro. Io non avevo il denaro per saldare il conto in hotel ma mio figlio e la fidanzata vivevano in un posto piccolo, non era un periodo sereno, non potevo andare da loro. Per fortuna degli amici si sono presi cura di me e un amico poeta, Bob Hass, mi ha portato all’ufficio della compagnia United Airlines tutti i giorni per vedere se ci fossero spiragli sui voli. Sono salita sul primo da San Francisco a Boston dopo cinque giorni, o sei giorni».

Nella sua poesia lautobiografismo non è auto-indulgente e la verità fa male, ma salva dalla menzogna. Ade non dice a Persefone «ti amo, ti proteggerò» ma «sei morta, niente può farti male». Si può dire la verità così anche al di fuori della poesia?

«Io cerco di dire la verità. Oddio, la verità… cerco di avere accesso alla verità offrendo le mie visioni schiette delle cose. Quando mi viene posta una domanda, la mia risposta è sincera, anche nei casi in cui non rappresenta la risposta desiderata. A volte, se ritengo che la risposta possa risultare umanamente dolorosa, cerco di adottare un approccio tale da renderla più sopportabile. Quello che tento di fare nelle poesie è stupire me stessa e, mi auguro, anche il lettore. Se il lettore ritiene di essere in procinto di avvicinarsi a un finale che è in grado di immaginare, che sembra coerente con l’apertura della frase, faccio in modo che la poesia prenda un’altra piega, desidero che il lettore sia un poco destabilizzato, che si meravigli e possa infine pensare che il finale così è più interessante, più vivo. La scrittura serve per mantenere lo stupore. La prima regola che insegno ai miei studenti di poesia è dividere le parti vive da quelle morte. Quelle morte sono le parti della poesia in cui un verso segue l’altro in maniera prevedibile. Non mi importano tanto le metafore, per quanto belle c’è il rischio che le abbiano usate migliaia di volte. Una poesia viva ti porta in un posto che non conoscevi prima».

Beh, c’è un verso che non smette di destabilizzarmi, dove si discute della verginità persa di Persefone: «Ha collaborato al suo stupro / o è stata drogata, violata contro la sua volontà / come spesso oggi le ragazze moderne. Com’è possibile “collaborare” al proprio stupro?

«Questo è un bosco fitto in cui addentrarsi. Penso sinceramente che sia preferibile desiderare che qualcun altro si assuma la piena responsabilità di una azione in modo da poter sostenere che quella stessa azione sia stata perpetrata contro di te, anche se in realtà tu stesso hai agito in modo da renderla possibile o tu stesso l’hai voluta. Questo è il senso di quel verso».

Nella poesia Sirena, la protagonista, una cameriera, racconta: «Innamorandomi sono diventata una criminale» e confessa pensieri terribili per la moglie del suo amante. Poi chiede al lettore che le venga riconosciuto il coraggio della verità. Lei ha mai vissuto amori così maligni?

«L’amore è una miriade di cose diverse. E per amore si è disponibili a fare cose che non si penserebbe neanche di essere in grado di fare… in alcuni momenti, per alcuni amori. Altri amori sono più benigni».

Nel suo discorso per il Nobel, ha raccontato di quando da piccola, nella casa della nonna, metteva in gara diverse poesie e testi letterari. Ad esempio Little black boy di Blake e la canzone Swanee River di Stephen Foster: questultima è diventata linno della Florida, ma hanno cambiato alcune parole perché considerate razziste. Le piacerebbe che un domani cambiassero le sue parole perché considerate sconvenienti?

«Ho lavorato sulle mie parole: non è obbligatorio leggere le mie poesie, nessuno potrà cambiarle. Se capitasse con me ancora in vita, farei quanto in mio potere per chiudere la bocca a chi ci provasse».

Grazie signora Glück per il suo tempo, speriamo che nel 2021 torni davvero la Primavera.

«Me lo auguro, che l’inverno finisca. Comunque… signorina Glück. Ho il cognome di mio padre».


(Corriere della Sera-Sette, 8 gennaio 2021)

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