2 Novembre 2022
il manifesto

Intervista a Medea Benjamin di Code Pink: «Sempre più urgente un movimento pacifista in Usa»

di Luca Celada


La prima presa di posizione progressista per la pace è finita catastroficamente. Difficile definire altrimenti l’appello per una conclusione negoziata al conflitto ucraino prima sottoscritto la scorsa settimana da trenta parlamentari del progressive caucus (tra cui Alexandria Ocasio Cortez, Rashida Tlaib e Ilhan Omar), ma successivamente “ritirato” dopo 24 ore e una pioggia di critiche piovute da ogni parte, ma specialmente “da sinistra.” L’appello non era certo radicale, ribadiva la solidarietà con il popolo ucraino di fronte all’invasione russa, elogiava le politiche di Biden e anche il sostegno militare, limitandosi ad auspicare però l’affiancamento di un sincero tentativo di dialogo per un eventuale accordo di pace. La ricerca cioè del dialogo USA-Russia che in privato molti ammettono dovrà essere necessaria condizione per la fine del conflitto. La semplice suggestione di un dialogo è stata però attaccata come capitolazione. Il repentino dietrofront ha inoltre dimostrato come sia tuttora inaccettabile ogni variazione dalla linea ufficiale dei risultati sul campo e della guerra “vincibile,” malgrado ogni indicazione al contrario nel pericoloso vicolo cieco dell’escalation. Medea Benjamin è fondatrice di Code Pink, storica formazione femminista e pacifista, autrice di un libro di prossima uscita scritto con Nicolas Davies (War in Ukraine) come prontuario per una pace possibile. Le abbiamo chiesto delle prospettive di un movimento pacifista che negli Stati uniti possa essere portatore delle istanze di un partito della pace contro il teorema militarista dell’intransigenza.

È rimasta sorpresa dalla violenza della reazione alla lettera e dalla rapidità della marcia indietro?

Sì, da entrambe le cose. Quando il testo ha cominciato a circolare l’estate scorsa pensavo che sarebbe stato facile trovare un centinaio di firme, almeno quelle dei componenti del progressive caucus, e forse anche di più. Sono stata una delle persone che hanno battuto i corridoi del Congresso cercando adesioni e non avrei mai pensato di avere tante porte sbattute in faccia. Perfino quando sono andata da Bernie Sanders suggerendo che anche lui si sarebbe potuto fare promotore di un’iniziativa analoga nel Senato, mi è stato detto senza mezzi termini che il dialogo con Putin era fuori discussione. Insomma ero già esterrefatta che fosse stato tanto difficile trovare anche solo trenta firme per una lettera in fondo così misurata e non avevo previsto la reazione che avrebbe suscitato. Speravo che a questo punto della guerra fosse più chiaro ai parlamentari quanto sia una tragedia per il popolo ucraino, per gli Americani e per tutto il mondo. Pensavo che i tempi fossero maturi per un’iniziativa come questa. Chiaramente mi sbagliavo.

Code Pink è nata in opposizione alla guerra irachena di Bush contro cui vi fu mobilitazione di massa. Perché secondo lei oggi il movimento progressista vive un tale dilemma?

Questa guerra si è certamente rivelata un dilemma per la sinistra. Avrei immaginato che i progressisti americani avrebbero potuto essere d’accordo sulla necessità assoluta di convincere tutte le parti a sedersi per trovare un modo per fermare le uccisioni e allontanare la possibilità di un conflitto nucleare. Invece si riscontra una diffusa tendenza a schierarsi a favore del flusso ininterrotto di armi verso l’Ucraina con l’obbiettivo di riconquistare ogni metro di terra invaso dai Russi. E ora esplicitamente contro l’idea stessa di un negoziato con Putin, equiparato alla capitolazione. La reazione a quella lettera da parte dello stesso Partito democratico è stata la conferma di una posizione irrazionale e pericolosa.

Insomma si parla tanto di offramp, di “via d’uscita” con cui Putin possa aver salva la faccia, ma forse non è lui l’unico ad averne bisogno?

Proprio così, si direbbe che anche Biden e Zelensky a questo punto ne abbiano bisogno. Hanno tutti puntato la propria reputazione sull’intransigenza. Dal punto di vista di un’organizzazione a conduzione femminile come Code Pink, tocca rilevare il militarismo al testosterone a cui siamo abituate. Dove ci si immagina possa portare questa guerra? Credo che in Europa siate forse un passo avanti per quello che riguarda la contestazione. Negli Stati uniti al momento è difficile radunare anche poche centinaia di persone per dire “basta alimentare questa guerra”. Credo che presto forse educheremo più persone. In ogni città che visito incontro gruppi che stanno iniziando a fare pressione sui propri rappresentanti e forse a breve avremo manifestazioni davanti agli uffici dei parlamentari. Di recente abbiano assistito ad alcune prime contestazioni durante comizi elettorali, quindi credo che siamo agli stadi iniziali della costruzione di un movimento che possa crescere velocemente dopo le elezioni.

Quindi non esclude che possa organizzarsi un movimento pacifista anche in USA?

Sì, anche se mi preoccupa molto il fatto che l’opposizione alla guerra sia stata in parte cooptata per ora dalla destra. Durante le finali di baseball (world series) alcuni gruppi hanno attaccato Biden per tutti gli aiuti spediti in Ucraina che ci avvicinano alla potenziale guerra nucleare. È quello che avrei voluto vedere da parte progressista anziché un gruppo di destra ben finanziato. Paradossalmente le voci più forti contro la guerra sono quelle di Trump e Tucker Carlson (commentatore Fox News, ndr). I progressisti faranno bene a prendere la parola e in fretta. Invece abbiamo esempi come quello di Ilhan Omar (parlamentare del Minnesota, parte del progressive caucus) che normalmente è una delle voci più incisive sulla politica estera, che invece ha prima firmato poi rinnegato l’appello a negoziare dicendo che le circostanze erano mutate, e dinanzi alle critiche di alcuni attivisti ha apertamente sostenuto le forniture di armi. Se non riusciamo ad avere dalla nostra parte nemmeno qualcuno come lei, significa che sarà più difficile del previsto costruire un movimento ampio.

Paradossalmente vi sono state prese di posizione, perfino da personaggi come Kissinger, a favore di un maggiore impegno per trovare soluzioni pacifiche…

Sì, ci sono molte voci, accademici, ex diplomatici, ex militari come il generale Mike Mullen, ex capo di stato maggiore, l’ex ambasciatore a Mosca, Jack Matlock, ex funzionari della NATO, oltre a personalità internazionali come il papa e il segretario dell’ONU Guterres. Molte però stentano a farsi sentire nella stampa mainstream. Una critica particolarmente lucida l’ha fatta Jeffrey Sachs (economista della Columbia, ndr.), ma dopo aver affermato che vi erano buone probabilità che ci fosse una mano americana nell’attentato al gasdotto Nord Stream 2, è stato radiato dai talk show.

Quali sono le prospettive per un movimento pacifista internazionale?

Mi sembra che iniziative come le manifestazioni per la pace indette in Italia promettano bene. Abbiamo intenzione di rafforzare i collegamenti con gruppi come Stop the War in Inghilterra e l’International Peace Bureau in Germania. Potrebbe essere utile invitare attivisti europei qui da noi per convincere i nostri politici. È urgente progredire e farlo in fretta.


(il manifesto, 2 novembre 2022)

Print Friendly, PDF & Email