di Chiara Nicoletti
«Nella mia pellicola racconto la realtà di oggi, ormai segnata dal totalitarismo. Da Israele agli Usa trionfano il bullismo e la prepotenza del denaro contro ogni diritto e contro l’umanità»
Chi meglio di un documentarista navigato come Joshua Oppenheimer, due volte candidato agli Oscar per The Act of Killing (2012) e The Look of Silence (2014) poteva scegliere l’ambientazione per il suo primo film di finzione post-apocalittico? Il regista non ha disatteso le aspettative e The End, già acclamato ai festival internazionali, che vede protagonisti la premio Oscar Tilda Swinton, Michael Shannon e i giovani talenti George MacKay e Moses Ingram è stato girato interamente nelle caverne della miniera di salgemma situata a Petralia Soprana, in Sicilia. Grazie a un’idea del distributore italiano del film, I Wonder Pictures, è proprio lì che abbiamo incontrato Oppenheimer per un suggestivo approfondimento sulla pellicola, poco dopo la visione, avvenuta sempre circondati dalla bianca atmosfera salina. The End narra la storia di una famiglia facoltosa costretta a vivere in un lussuoso bunker sotterraneo all’indomani di un’apocalisse ambientale. Dopo decenni di solitudine, il gruppo entra in contatto con una ragazza sconosciuta che proviene dal mondo esterno e che farà da elemento dirompente della loro routine, fatta di credenze, convinzioni, abitudini, segreti e bugie.
Mentre guardavo il film, continuavo a pensare alla frase “Mors tua, vita mea” perché il film è una chiara e toccante rappresentazione del processo di disumanizzazione che stiamo vivendo in questo momento. Era questo l’intento?
Penso che sia un bellissimo modo di guardare al film. Parla della disumanizzazione, sì, ma parla anche della riumanizzazione, ed è proprio lì che risiede la speranza. Forse il film finisce in modo tragico, ma quando la ragazza arriva nel bunker porta con sé il dono dell’onestà, e questo richiede la capacità di ammettere il proprio rimorso senza vergogna. La differenza tra rimorso e vergogna è importante: il rimorso è un sentimento che proviene dal cuore, la vergogna è la preoccupazione di come appari agli occhi degli altri. Quel gesto riumanizza tutti nel bunker, almeno fino a quando non smette più di funzionare. Ma anche se le cose nel film finiscono tragicamente, perché devono finire così, è la fine, è l’ultima famiglia, il dono che lei porta rispecchia, secondo me, lo sguardo della macchina da presa verso queste persone spezzate e tristi. Il mio lavoro è sempre stato un tentativo di riumanizzare coloro che saremmo tentati di liquidare come mostri, per ricordarci che non lo sono, sono esseri umani. E i loro schemi di comportamento disfunzionali e distruttivi sono qualcosa che ognuno di noi conosce bene. Questi personaggi non hanno nome perché sono noi.
Quanti, dunque, dei temi di questo film risuonano con il presente?
Mentre eravamo seduti in miniera a guardare questo film dicevo a George (McKay) che, chiaramente, abbiamo fatto il film qualche tempo fa e queste sono diventate delle finestre impietose in cui dall’interno guardiamo verso l’esterno a quello che il mondo è diventato. E, in questo tempo in cui vediamo il totalitarismo crescere e avanzare non solo in Europa ma partendo principalmente dagli Stati Uniti, comprendete bene come questi temi siano sempre più pressanti. Se guardiamo agli sviluppi incredibili della tecnologia di guerra, visti solo gli ultimi attacchi in Ucraina (e non solo), sappiamo quanto questo stia alzando l’asticella della guerra e della distruzione e siamo al punto in cui la nostra civiltà sarà distrutta se non riusciamo a intervenire al più presto. Il magnate del petrolio indonesiano a cui mi sono ispirato per questo film mi ha fatto vedere il bunker che si è già costruito quindi è come se fossimo entrati già in questa idea della protezione, del bunker, appunto, in cui noi e la nostra famiglia ci dovremo proteggere. Con l’urgenza dei cambiamenti climatici, che è un’altra emergenza, è evidente che invece dobbiamo investire soprattutto per salvaguardare i poveri che fuggono dal disastro che noi abbiamo creato sottraendogli delle risorse. Dovremmo condividere con loro le ricchezze che abbiamo accumulato per salvarci tutti insieme e uscire da quel circolo ristretto del bunker per ritornare ad abbracciare con compassione tutto il mondo. Ci estingueremo se non faremo qualcosa.
L’atmosfera politica internazionale quanto ha influenzato la realizzazione del film?
L’intero film era basato sul tentativo di trovare una storia vera, nel senso che avevo indagato su oligarchi, magnati e miliardari che avevano fatto fortuna attraverso la violenza. È nato da un interesse per una società simile, fiorente nell’impunità, che era l’Indonesia del dopo-genocidio, che avevo esplorato nei miei altri lavori, e ho sempre visto quella società, così come altri paesi che ho studiato con situazioni simili, come una sorta di metafora di dove stavamo andando a finire. Quando ho finito The Act of Killing, ricordo di aver sempre detto: «Questo non è un fi lm su ciò che è successo in Indonesia nel 1965, è un film sull’impunità, è un film sull’oggi, e l’impunità è la storia del nostro tempo». Di recente ho rivisto il film e ho pensato: «Oh mio Dio, tutto il mondo è diventato The Act of Killing adesso».
Ha avuto paura di censure o ritorsioni durante le riprese?
Non abbiamo affrontato censura o paura rispetto a ciò che cercavamo di esprimere, anche se uno dei motivi per cui non ho proseguito il progetto documentaristico che aveva dato origine al film era la paura di una ritorsione davvero pericolosa da parte dell’oligarca che aveva ispirato il film. Si può definire una metrica per capire quando un paese non è più davvero una democrazia, notando quando inizia a esserci un prezzo da pagare per l’opposizione, cosa che ora sta accadendo almeno negli Stati Uniti. Ti tagliano i fondi universitari come è successo ad Harvard oppure, come vedremo, Elon Musk presumibilmente perderà tutti i suoi contratti governativi nella rottura con Trump. Quella è la soglia che abbiamo superato, e a quel punto le persone iniziano ad avere paura di esprimersi. Concludo dicendo un paio di cose sulla paura: quando ho iniziato a viaggiare con il film e a distribuirlo, il genocidio a Gaza stava diventando sempre più devastante per l’anima, e mi sono reso conto che, dopo un paio di mesi dall’uscita del film, non ne parlavo. Mi sono chiesto: «Perché non ne sto parlando?» E ho capito: avevo paura di parlarne. Dovevo affrontare quella paura ogni sera davanti allo specchio, quando tornavo dai dibattiti sul film, dove dicevo che il film è uno specchio, e in quello specchio vedevo la mia ipocrisia. Allora ho fatto un respiro profondo e ho riflettuto sulla mia interconnessione con ogni essere umano sulla Terra, in particolare con il popolo palestinese, ma anche con il popolo ebraico, e con l’umanità nel suo complesso. E abbastanza rapidamente ho ritrovato la mia compassione, che mi ha costretto a iniziare a parlare. In questo caso, sentivo particolarmente il dovere di dire qualcosa, perché sentivo la mia ipocrisia in modo particolarmente acuto, perché il genocidio stava avvenendo nel mio nome, come ebreo. Ma la paura è paura, e se il film ha un messaggio, è che non dovremmo isolarci in bunker dove limitiamo il raggio della nostra empatia e compassione a causa della paura: paura della responsabilità che comporta l’ampliamento di quel cerchio, paura di affrontare il nostro senso di impotenza se allarghiamo quel cerchio. E la risposta che spero le persone portino via dal film è che dobbiamo stare insieme, dobbiamo tendere la mano agli altri, partendo dalla propria famiglia o, se si preferisce, dai propri amici, e poi estendendo sempre di più questo cerchio, e fare cose con loro: che sia realizzare un film, partecipare a una protesta, o impegnarsi molto localmente nella propria comunità. Questi tempi ci insegnano che, se c’è una lezione della storia che possiamo imparare, la più importante lezione dai momenti in cui il totalitarismo e la crisi crescono è: non lasciarti mai solo, chiuso in un bunker di social media, dove tutto è competitivo, anche le dichiarazioni politiche in cerca di like, approvazione, interazioni. Lascia perdere tutto ciò, tendi la mano agli amici, esci, fisicamente, di persona. Non stare solo. Questo non è un tempo per la solitudine.
(l’Unità, 21 settembre 2025)

