15 Maggio 2023
Corriere della Sera

«Io “tagliatrice” pentita ora combatto le mutilazioni»

di Rosella Redaelli


«Ho “tagliato” tante ragazze, alcune sono mie vicine di casa e persino mie nipoti. Lo facevo perché era un requisito culturale e anche per la statura sociale che il mio ruolo mi dava all’interno della comunità. Mi sono però resa conto che le mie azioni hanno causato più danni che benefici. La maggior parte delle ragazze che ho circonciso non sono più tornate a scuola e si sono sposate. Alcune di loro hanno avuto gravi complicazioni durante il parto e continuano a subire traumi. Ho deciso e giurato di non permettere più ad altre ragazze di sperimentare l’atroce atto del taglio». Mary Lesintiyo è un’ex tagliatrice, a lei le famiglie della contea di Samburu (Kenia) affidavano le proprie bambine per la pratica della circoncisione femminile. Una pratica antica, cruenta che può prevedere l’asportazione totale o parziale degli organi genitali esterni, il restringimento della vagina, spesso in condizioni sanitarie precarie e con gravi rischi per la vita delle donne.

La storia di Mary, tagliatrice pentita, è tra quelle raccolte nell’ambito del progetto Be4We dagli operatori di Amref, la più grande organizzazione senza fini di lucro a occuparsi in Africa di tutela della salute materno-infantile, di formazione sanitaria ed empowerment femminile. «Be4We è un progetto sostenuto dall’Unione Europea – spiega Daniela Rana, responsabile per Amref delle attività in Kenya e Uganda – partito nel gennaio 2020 in Kenia dove l’uguaglianza di genere è una promessa largamente incompiuta, dove c’è un alto tasso di mutilazioni genitali femminili». Nelle comunità nomadi di Samburu e Marsabit, nel centro-nord del Paese dove si è focalizzato il progetto, le pratiche di mutilazione genitale femminile si attestano tra l’86% e il 91,7%, i matrimoni combinati sono il 38% a Samburu e l’80% a Marsabit. Si stima che 574mila bambine keniote siano a rischio di subire mutilazioni entro il 2030.

«Poiché questa usanza – prosegue Rana – è radicata nella cultura della disuguaglianza di genere, per combatterla è necessario cambiare le norme culturali e sociali che contribuiscono a perpetuare la violenza. Per farlo abbiamo lavorato a livello comunitario, usando persone chiave come la stessa Mary, ma anche gli anziani, i leader religiosi, gruppi di donne giovani già consapevoli della necessità di cambiare». È un processo lungo, ma che paga nel tempo. Tra i successi che gli operatori di Amref possono raccontare c’è la dichiarazione di stop alle mutilazioni femminili sottoscritta dagli anziani del clan Samburu davanti all’ex presidente Uhuru Kenyatta, ma ci sono anche storie di empowerment femminile come quella di Dokatu Konchora, che ha ottenuto un microcredito, ha avviato un’attività di vendita di capre al mercato di Nairobi e ha costruito la sua casa.

«In questi tre anni – conclude Rana – abbiamo seguito oltre 600 donne, formato operatori sanitari e anche figure legali sensibili alla violenza di genere che possano essere un punto di riferimento per le donne che vogliono denunciare i loro maltrattatori, ma abbiamo anche lavorato perché le donne abbiano un ruolo attivo in politica e in venti si sono presentate alle ultime elezioni con lo slogan Eleggi una donna». Amref lavora anche in Italia perché le migrazioni hanno reso le mutilazioni genitali femminili un problema globale. Secondo gli ultimi dati in Europa vivono più di 600mila donne e ragazze con mutilazioni: in Italia le donne tra i 15 e i 49 anni sottoposte a mutilazioni sono 87.600.

Per loro è nato il progetto P-Act, rete di prevenzione e contrasto delle mutilazioni genitali femminili sulle minori straniere. Nelle quattro città capofila (Roma, Milano, Padova e Torino) sono stati già più di cinquecento gli operatori formati per relazionarsi con donne che hanno subito mutilazioni o violenze di genere. A Roma il 19 aprile è stato siglato un protocollo per attivare una rete specifica per la prevenzione e il contrasto della pratica, in particolare verso le minori. Della rete fanno parte i vertici della Asl Roma 1, l’assessorato alle Politiche Sociali e alla Salute, il direttore del Centro Samifo (Salute migranti forzati), la Società italiana di pediatria e tante realtà che, in ambiti diversi, possono avere un ruolo chiave nella tutela di donne e bambine migranti.


(Corriere della Sera, 15 maggio 2023)

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