di Greta Privitera

Centinaia di capi scoperti. Centinaia di code, di trecce nere che ondeggiano libere. Bisogna scrutare con attenzione i video della fiumana che taglia il via della maratona di Kish per scovare un hijab. C’è qualche fascia che ferma frangette ribelli, qualche cappellino da baseball portato all’indietro, ma pochissimi i veli a coprire le chiome delle duemila iraniane che venerdì hanno preso parte alla maratona sull’isola nel Golfo Persico. «Una “immorale” la puoi arrestare, ma duemila non è così facile», ci scrive Ghazaleh, giovane professoressa di Teheran. Non ha partecipato alla gara che tanto ha fatto infuriare gli ayatollah e i loro seguaci, ma sono due anni che corre per le strade della capitale a testa libera. Dice: «Non sanno più come fermarci».
Gli uomini di Ali Khamenei, sorpresi e sconcertati dall’affronto senza precedenti, sui giornali di regime condannano la «scandalosa competizione», che qualche integralista indignato sui social chiama «Las Vegas della corsa». Confusi sul da farsi, i giudici fanno partire gli arresti. I primi a «pagarla» sono due organizzatori della maratona colpevoli di non essere riusciti a fare rispettare le leggi morali che governano la Repubblica Islamica. E balbettano: «Per dirla tutta noi avremmo avvertito che era fondamentale osservare le regole d’abbigliamento». Ma la procura di Kish non perdona: «È stato indecente il modo in cui si è svolto l’evento». L’agenzia di stampa ultraconservatrice Tasnim critica «l’assenza totale di controllo e il mancato rispetto dei codici da parte di un numero significativo di partecipanti».
Ghazaleh crede che non si fermeranno ai due arresti: «I loro scagnozzi staranno studiando i profili social per capire chi altro punire. Staranno cercando le persone con più follower perché la vendetta sia rumorosa. Poi, smetteranno di parlarne, come è successo con l’ultimo caso del concerto all’aperto a Teheran. Anche lì si cantava e ballava a capo scoperto: io c’ero».
Le ragazze iraniane sanno come funziona. Conoscono a memoria i rischi che corrono quando sfidano le leggi medievali della dittatura. E a Kish – come per le strade di Teheran, di Isfahan, di Tabriz – hanno affrontato gli ayatollah sul solito fronte, quello più caldo: il velo. Queste giovani donne sembrano avere sempre meno paura delle autorità che governano il Paese. È dall’uccisione di Mahsa Jîna Amini, dal 2022, che la lotta del movimento Donna Vita Libertà è diventata una rivoluzione in grado di cambiare le regole del gioco. «Una rivoluzione che non ha fatto cadere il regime», dicono i pessimisti, ma ha stravolto la società. Ha liberato le ragazze, e, soprattutto, ha «convertito» i padri, i fratelli, gli amici. Gli unici a rimanere immobili sono coloro che detengono il potere e che tremano all’idea di perderlo.
Amir ha 25 anni e venerdì correva sull’isola di Kish: «È stato bello vedere così tante donne senza velo. Le nostre sorelle sono coraggiose e noi le sosteniamo». Erano tremila gli uomini che hanno partecipato alla quinta edizione della maratona. Correvano separati dalle atlete, «ma poi abbiamo festeggiato insieme».
I legislatori hanno accusato la magistratura di non far rispettare la legge sull’hijab. Il capo della Corte suprema Gholamhossein Mohseni Ejei ha chiesto un’applicazione più rigorosa e intanto il presidente cosiddetto riformista Masoud Pezeshkian si è rifiutato di ratificare un disegno di legge che avrebbe imposto sanzioni più severe per le donne. Il governo, indebolito dalla Guerra dei dodici giorni con Israele, da un’economia a pezzi e da una siccità senza precedenti, è accusato dalle frange più conservatrici di lassismo: le lotte interne debilitano il potere.
«Non ci fanno più paura, li combattiamo su ogni fronte. Anche lo sport qui è politica», continua Ghazaleh. In Iran alle donne è vietato andare in bicicletta e nuotare in pubblico. Sono vietati gli stadi ed è proibito giocare a biliardo.
(Corriere della Sera, 7 dicembre 2025)

