6 Maggio 2021
la Repubblica

Isa Mazzocchi, schiva e determinata: è lei la migliore chef dell’anno secondo Michelin

di Eleonora Cozzella


«Quando mi hanno chiamato dalla Michelin per comunicarmelo, circa un mese fa, c’è stato un momento di blackout per l’emozione. Non me l’aspettavo, non era una cosa a cui avevo mai pensato, nel senso che in Italia ci sono tante professioniste talentuose e, insomma, non mi ci ero messa in mezzo». Isa Mazzocchi, chef della Palta a Bilegno, frazione di Borgonovo Val Tidone in provincia di Piacenza, con candore risponde così alla domanda di rito del dopo premiazione.

È appena stata insignita del Premio Michelin Chef Donna 2021 by Veuve Clicquot e le sue parole sono quelle di una professionista dell’alta cucina che stima le sue colleghe così tanto da non pensare che il riconoscimento potesse andare a lei. Chi la conosce sa che è sincera, che l’opportunismo è lontanissimo dalla sua indole.

Emozione e modestia a parte, si riconosce moltissimo nella motivazione: «È stata selezionata degli ispettori Michelin perché ha un fortissimo legame con il suo territorio che promuove attraverso i suoi piatti per farne emergere le peculiarità. La cucina, nella quale investe tutte le sue energie, la sua tenacia e l’apprendimento continuo, le permettono di spaziare tra passato, presente e futuro, per portare l’ospite in una dimensione di esperienza senza tempo, fatta di tradizione e innovazione».

Se volevano dar valore alla relazione, all’attaccamento viscerale, all’amore indissolubile con il territorio, allora è la persona giusta: «Mi ci ritrovo moltissimo» dice.

Non è stato facile arrivare all’apprezzamento della critica e del pubblico, in un paese di cento abitanti («anzi, ora siamo 92» specifica) dove il suo ristorante non è l’unico stellato: è l’unico e basta. Da sempre. La Palta non a caso conserva il nome piacentino di quello che era in origine, una tabaccheria (per poter aprire bisognava avere la licenza per sali e tabacchi, quindi una concessione, un appalto, la “palta” in dialetto), che ancora resta, minuscolo, dietro al bancone del bar, non certo per bisogno commerciale, ma per omaggio al passato, per non rinnegare ciò da cui tutto ha avuto inizio, con i nonni e i bisnonni.

Quando si parla di un premio alle donne nascono sempre polemiche. Chef, lei che cosa ne pensa: anacronismo, discriminazione o iniziativa utile? 
«Sono sempre stata tra quelle che si interrogavano sulla questione, sul perché ci fosse bisogno di una corsia diversa, che per alcuni è un contentino. Ma riflettendoci nel tempo, mi sono resa conto che grazie al network di donne dell’Atelier des Grandes Dames by Veuve Clicquot, creato nel 2016, abbiamo potuto fare squadra e si è data luce a quelle che io ho chiamato – anche attirandomi dure critiche – le invisibili». 
Che cosa intendeva? 
«Quando si dice che ci sono meno donne in cucina io dico invece che non è vero. Ce ne sono eccome! Poi chissà perché sulle copertine dei magazine ci mettono gli uomini. O almeno di donne sotto i riflettori ne vedo molto meno. Siamo raramente chiamate chef, siamo cuoche, il titolo chef sembra appannaggio maschile».

In effetti, almeno per quanto riguarda l’Italia la situazione vede molte donne in cucina, anche a livello di stellati. Le chef stellate nel nostro Paese sono 42, addirittura il 21 per cento di tutte le stellate del mondo. Come è possibile valorizzarle di più? 
«Nelle varie manifestazioni con l’Atelier abbiamo modo di stare insieme, conoscerci, fare rete, scoprire e riconoscere la forza l’una delle altre. Nell’ultimo viaggio fatto in famiglia abbiamo percorso l’Italia e ci siamo fermati in diverse tappe dalle mie colleghe. E ho scoperto cose importanti, che forse sono poco raccontate. Per esempio, Maria Cicorella al Pascià di Conversano mi ha meravigliato per lo stile, un’italianità signorile forte e bella che non conoscevo, è stato come entrare in una casa col salotto buono di una volta. Iside De Cesare della Parolina in un luogo un po’ sperduto, con la vista meravigliosa che guarda tutta la valle, è una donna con una potenza incredibile che segue la cucina e esce ogni tanto a controllare il bambino che corre sul triciclo nel cortile. E ancora la Passione di Bianca Celano che come un giocoliere che fa saltare gli ingredienti». 
Dunque, bisogna raccontare di più queste storie. 
«Assolutamente. Io sono davvero pro-donna. Credo che dobbiamo in primis raccontarci di più tra noi. Sono fortunata in questo, sono cresciuta con intorno donne forti e meravigliose che mi hanno fatto credere in me e sono contornata da amiche meravigliose che mi hanno portato in braccio nei momenti di difficoltà, in particolare in quest’ultimo anno in cui mio marito Roberto non è stato bene».

Lei in qualche modo con questo premio crede di poter essere un esempio?  
«Onestamente sì, nel senso che con la mia vita e la mia carriera dimostro che tutte ce la possono fare. Io sono arrivata fin qui, ma a passi piccoli piccoli, consolidandomi a poco a poco. Sono riuscita a conciliare il lavoro con la famiglia. Mi sento di avercela fatta. Ecco, non di essere arrivata, perché voglio fare tanto altro ancora, ma di avercela fatta sì. Certo non da sola: ci sono mia sorella Monica, mio marito, tutto lo staff che mi hanno appoggiato. Il premio gratifica la nostra scelta di vita. Di semplicità, di onestà intellettuale. Ci sentiamo così, veri e genuini, a volte anche un po’ naif».

Lei parla sempre di suo marito, dicendo che senza Roberto non avrebbe ottenuto tutto questo. E parla della sua cucina femminile ma anche del suo essere femminista. Non c’è una contraddizione? 
«No, anzi. Per me è una forza. Con l’orgoglio di essere riuscita a conciliare famiglia e lavoro, senza aver dovuto rinunciare a una cosa o l’altra. Sapere di essere amata e sostenuta, mi fa dare il meglio. Quando gli ho detto che mi avrebbero premiato mi ha sorriso dicendo “lo sapevo già”. Una cucina femminile non vuol dire una cucina debole. Quando dico che la mia cucina è femminile mi riferisco al suo essere di cura, di accudimento, di nutrimento. Cucina femminile non vuol dire delicata e non c’entra niente con lo stereotipo dell’angelo del focolare. È una cosa che sento in comune con molte colleghe autrici di una cucina concreta, densa di storia, radici, coraggio e pensiero. Non rinunciando a gusti forti, attenzione: la cucina femminile non è quella con i fiorellini».

Ora sua figlia Bianca, che ha appena compiuto diciott’anni, frequenta una prestigiosa scuola di pasticceria e suo nipote Luca lavora già con lei in cucina. La tradizione continua… 
«Sì, Bianca frequenta a Noventa Padovana, la Dieffe, e sta facendo lo stage in Alma a Colorno. Mentre il figlio di mia sorella Monica si occupa dei primi piatti e ha una mano molto felice. Non li abbiamo spinti a farlo, ma è stato spontaneo, naturale. Auguro loro il mio stesso percorso. Il desiderio di imparare e la voglia di studiare che avevo io». 
 
E infatti dalla raccolta delle erbe spontanee («ora lo chiamano foraging» ironizza, «ma noi lo abbiamo sempre fatto») fin da bambina con le zie nei dintorni del paese alla scuola alberghiera di Salsomaggiore Terme, dall’incontro segnante con Georges Cogny fino alle esperienze da Gianfranco Vissani, Gualtiero Marchesi, Herbert Hintner, Isa Mazzocchi non ha fatto che leggere e approfondire: «Facevo spedizioni alla biblioteca culinaria di Lodi e tornavo a casa con dei bauli di libri, soprattutto francesi, che mio padre si spaventava». 
E passo dopo passo è arrivato il nuovo locale, si è delineato il suo stile di cucina. Che affonda i ricordi nelle scene dei cacciatori del paese che tornano con le prede da cucinare e infatti Mazzocchi è famosa per i piatti di selvaggina, che racconta le stagioni e la campagna circostante, che esegue bene i piatti di un tempo ma non ha paura di modificarli e anche stravolgerli, ma sempre con in mente un filo conduttore. Emblematico il suo piatto che unisce le tre paste tipiche di Piacenza: la bellezza del tortello con chiusura a treccia, la ricchezza del ripieno degli anolini, ma il tutto con l’impasto dei poverissimi pisarei.


(la Repubblica, 6 maggio 2021)

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