6 Dicembre 2022
il manifesto

Jin, jiyan, azadî: la filosofia oltre lo slogan

di Zehra Doğan


Dalle montagne curde a Teheran


Nel mondo quello che sta accadendo in Iran viene letto in maniera riduttiva sottolineando soltanto il problema dell’«islam dispotico che obbliga le donne a coprirsi».

Ci si concentra sul diritto di avere la libertà di indossare o meno il velo. È vero, il velo è stato reso obbligatorio per le dipendenti pubbliche in Iran dopo la «rivoluzione del 1979» e i corpi delle donne sono stati imprigionati dall’hijab e da leggi sessiste. Ogni anno migliaia di donne in Iran vengono fermate e arrestate per non aver indossato l’hijab «correttamente». Certo, il velo è un grosso problema in Iran, dove il diritto delle donne di decidere del proprio corpo è controllato dalla pressione statale e religiosa. È a causa della contestazione delle donne all’oppressione sia dello stato sia della religione che il velo, che è solo un pezzo di stoffa al di là delle percezioni attribuite a esso, è diventato un simbolo dell’opposizione delle donne in Iran e in molti paesi governati dall’islam. Le prime informazioni storiche sulla pratica dell’uso del velo per coprire il capo risalgono all’epoca preislamica. Questo tessuto, che in alcuni periodi è uno status symbol, in altri periodi appare come il modo in cui le tribù si autodefiniscono. Molte fonti affermano che durante l’epoca assira solo le donne della classe dirigente potevano indossarlo, mentre a contadine e schiave era proibito. Il velo è il più grande strumento di oppressione contro le donne in Iran, come lo è in tutti i paesi islamici autoritari. Ma sarebbe un approccio sbagliato ridurre la definizione di libertà in Iran alla sola decisione delle donne di indossarlo o meno.

Non esiste solo la questione del velo, ma anche quella di persone di popoli diversi, Lgbtq, poveri, lavoratori, bambini e molte altre identità soggette a un’amministrazione oppressiva che non rispetta diritti fondamentali e libertà. Curdi, beluci, azeri e molti altri popoli sono sottoposti a una forte pressione nazionalista. Per questo è importante discutere sul tipo di sistema che si dovrebbe adottare in Iran come conquista della rivoluzione scaturita dalle proteste che hanno raggiunto grandi masse.

Il fatto che lo slogan «Jin, jiyan, azadî» (donna, vita, libertà) sia diventato il motto della resistenza delle donne nel mondo è una vittoria per la lotta del popolo curdo. «Jin, jiyan, azadî» è più di uno slogan: sottolinea che in Kurdistan le parole donna e vita, dal punto di vista etimologico, hanno la stessa radice, mostra come derivino l’una dall’altra. Questa filosofia è stata espressa per la prima volta dalle guerrigliere del Pkk, che da 40 anni combattono sulle montagne per la libertà dei popoli del Kurdistan, e dal leader del Pkk Abdullah Öcalan, imprigionato dallo stato turco da 23 anni. Le guerrigliere curde hanno creato nel 1993 per la prima volta un esercito separato dai compagni maschi e formato da sole donne sulle montagne e lo hanno consegnato alla storia con lo slogan «Jin, jiyan, azadî». Si deve sapere anche che le donne curde combattono da anni in Iran, Iraq, Turchia e Siria non solo per l’identità curda, ma per la libertà delle donne in Medio Oriente in particolare e in tutto il mondo in generale. Sarebbe ingiusto nei confronti dell’ideologia della liberazione delle donne esprimere la filosofia di «Jin, jiyan, azadî», eredità di migliaia di donne curde rivoluzionarie come Sakine Cansiz e Nagihan Akarsel, solo facendosi catturare dal vento della tendenza popolare, decontestualizzandola e sacrificandola al consumo del neoliberismo. Il fatto che l’essenza delle richieste che si alzano dalle proteste è riassunta nello slogan «Jin, jiyan, azadî» non può essere una coincidenza. Perché questo slogan è una filosofia, un paradigma di vita libertario, democratico ed ecologico delle donne che ha preso vita in Rojava. Se ci sarà una rivoluzione in cui questo paradigma prende vita, sarà con un modello in cui tutti i popoli determinano liberamente il proprio destino, rispettano la natura, la libertà dei generi, in cui non ci sarà corruzione e saranno abolite l’unica voce e l’unica bandiera.


*Artista curda, giornalista ed ex prigioniera politica Versione integrale su il manifesto.it


(Traduzione di Nayera El Gamal, il manifesto, 6 dicembre 2022)

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