di Antony Gormley
Intervista con la filosofa, ospite a Bologna per parlare del ruolo critico delle università nell’epoca di Trump
«È tempo che i movimenti sociali si coalizzino per formare un movimento forte, che abbia idee molto chiare sull’uguaglianza, sull’economia, sulla libertà, la giustizia, e questo significa avere ideali e piattaforme separate dalla politica di partito. Solo a questo punto un movimento sociale è nella posizione di negoziare». A partire dalla pubblicazione di Gender Trouble (1990), uno dei testi fondativi della teoria queer, la riflessione di Judith Butler – docente presso il Dipartimento di Letteratura comparata e il Programma di Critical Theory dell’Università della California, Berkeley e la European Graduate School/EGS – ha provocato un ampio dibattito che ha coinvolto tanto il femminismo quanto, più in generale, la teoria critica, facendo di lei una delle più influenti intellettuali nel panorama internazionale contemporaneo.
Muovendosi tra la filosofia, la psicoanalisi e la letteratura, Butler è intervenuta su alcuni dei principali eventi che hanno scosso il presente globale, dall’11 settembre alle Primavere arabe. Tra le sue ultime pubblicazioni, Senses of the Subject (New York, 2015) e Notes toward a Performative Theory of Assembly (Harvard, 2015, tradotto in italiano con il titolo L’alleanza dei corpi, Nottetempo, 2017).
La filosofa è stata in Italia, a Bologna, per promuovere la conferenza internazionale «The critical tasks of the University» e per partecipare alla Summer School «Sovereignty and Social Movements» organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theory (Duke University, University of Virginia, Università di Bologna), fino al 7 luglio. L’abbiamo raggiunta per qualche domanda.
Come pensa che il ruolo critico delle università, la loro opposizione alle politiche di deportazione di Trump, sarà colpita dai suoi progetti di riorganizzazione dello Stato e dall’azione sempre più arbitraria della polizia?
È molto importante che le università dichiarino lo status di «santuari». Manda un segnale forte al governo federale. Il programma di Trump non è ancora effettivo, ma i funzionari dell’immigrazione possono agire autonomamente in modo più aggressivo, perché non c’è una politica federale chiara, il presidente dice una cosa, le corti di giustizia vanno in un’altra direzione, cosicché i funzionari decidono in modo discrezionale di andare nelle scuole o nelle case per cercare le persone senza documenti.
Le università però possono decidere di consegnare i nomi di quelli che non hanno documenti oppure resistere alle richieste dei funzionari. Hanno il potere di bloccare l’implementazione dei piani di deportazione e questo significa che possiamo diventare parte di un più vasto network che resiste all’applicazione delle politiche federali. […]
(Il manifesto, 30 giugno 2017. La versione integrale di questa intervista è pubblicata su www.connessioniprecarie.org)