15 Marzo 2023
La Stampa

Kabul, partire o morire

di Francesca Mannocchi


Cinquantasette delle settantanove vittime del naufragio di Cutro arrivavano dall’Afghanistan. Avevano lasciato il Paese con le loro famiglie. Erano uomini, donne e bambini che continuano a essere offese e oltraggiate anche da morte. Salme che dovrebbero essere riportate in un Afghanistan che però non ha relazioni diplomatiche dirette con l’Italia né con altri Paesi occidentali.

È solo l’ultima, dolorosa evidenza della distanza che c’è tra gli slogan, le frasi a favore di telecamera e i dati di realtà, cioè i numeri.

Il primo: l’Afghanistan è uno dei cinque Paesi che genera più rifugiati al mondo. Sette rifugiati su dieci, nel 2022, provenivano da Siria, Venezuela, Ucraina, Sud Sudan e, appunto, Afghanistan.

Il secondo: le Nazioni Unite stimano che due terzi della popolazione, ovvero 28 milioni di persone, avranno bisogno di assistenza nel 2023, quattro milioni in più rispetto allo scorso anno. Di questi 28 milioni, 19 milioni soffrono di insicurezza alimentare, sei sono a rischio di carestia.

Il terzo: con 4,6 miliardi di dollari, l’appello umanitario delle Nazioni Unite per l’Afghanistan del 2023 è il più alto al mondo. Fondi necessari ma che non arrivano, perché sanzionati e isolati dal resto del mondo, i talebani hanno allontanato i donatori che hanno smesso di fornire prima gli aiuti allo sviluppo e oggi anche quelli d’emergenza. L’appello dello scorso anno per 4,4 miliardi di dollari è stato finanziato solo al 58%, poco più della metà.

Per le famiglie afghane significa non avere da mangiare, scegliere quale figlio sfamare. Per chi può, e ha ancora i mezzi, le possibilità sono due: aspettare aiuti che non arrivano o scegliere la fuga, sperando di arrivare in un luogo che possa garantire loro l’asilo, la protezione internazionale. Un diritto che hanno, o meglio che avrebbero se riuscissero a raggiungere in sicurezza un altro Paese. Cioè quello che provano a fare illegalmente, in assenza di canali legali.

Le punizioni esemplari, gli omicidi mirati

Una delle vittime del naufragio di Cutro era Torpekai Amrkhel. Aveva 42 anni, era una giornalista e stava provando a raggiungere l’Europa con il marito e i figli, prima di morire annegata. I corpi di due dei loro bambini sono stati recuperati, mentre uno dei figli, di sette anni, risulta ancora disperso. Torpekai Amrkhel era stata una voce della radio nazionale afghana, un lavoro con cui aveva cercato di prestare ascolto alle donne del suo Paese e raccontarle, nei loro desideri, nelle loro frustrazioni, nelle contraddizioni che animavano il Paese. Provava a dare visibilità, la stessa che era al centro del suo ultimo progetto prima della fuga, un viaggio fotografico nei mondi femminili afghani. Pensava di riuscire a portarlo a termine, nonostante i talebani. Ma non ce l’ha fatta. Per quelle come lei, che avevano lavorato con le istituzioni occidentali, vivere significava essere ogni giorno esposti al rischio di una punizione esemplare. E Torpekai Amrkhel aveva lavorato per l’Unama, la Missione delle Nazioni Unite per l’Afghanistan. Particolare che rende ancor più tragica la sua morte nelle acque europee. La fuga di Torpekai Amrkhel e della sua famiglia era una fuga dalla paura, dalla povertà ma anche dalle esecuzioni mirate che i talebani hanno messo in atto da quando hanno preso il potere.

Punizioni contro chi ha fatto parte delle forze di sicurezza afghane, chi è stato membro del precedente governo. Colpiscono chi manifesta il dissenso, chi mette in discussione la loro gestione del potere. Persino chi, come Mursal Nabizada, era stata severa e lucida anche nel criticare la gestione del potere di Ashraf Ghani e del parlamento di cui aveva fatto parte.

Mursal Nabizada, originaria di Nangharar, aveva solo 26 anni quando vinse le elezioni. Aveva prestato giuramento in Parlamento nel 2019, era lo specchio di un pezzo di società afgana che si sentiva proiettato a un futuro di costruzione dei diritti, era cresciuta in una stagione in cui – nonostante la guerra, le vittime, gli attentati quotidiani – una generazione tentava di stabilire una cultura dell’emancipazione da opporre a quella dell’oscurantismo. Aveva visto tornare migliaia di ragazzine sui banchi di scuola. C’era tanta strada da fare, ancora. Lo sapeva bene. Ma essere una delle 69 donne in un Parlamento di 250 seggi le dava speranza che passo dopo passo i diritti si sarebbero fatti strada anche in una società così tradizionalista come quella afghana.

Dopo la presa del potere da parte dei talebani era una delle poche donne parlamentari rimaste nel Paese, mentre tutti gli altri cercavano di scappare temendo per la loro incolumità, Nabizada, pur rispettando e comprendendo le scelte delle sue colleghe, aveva scelto di restare. Sia perché abbandonare Kabul senza poter garantire anche ai suoi parenti di andare via le sembrava intollerabile, sia perché era determinata nel trovare una strada per continuare ad aiutare la sua gente.

Nabizada era giovane e piena di speranze, ma non cieca. Conosceva il Paese in cui viveva, sapeva che Kabul non è l’Afghanistan, conosceva le ragioni del consenso dei talebani nelle aree rurali e in parte condivideva le critiche e le insofferenze dei suoi concittadini verso l’inefficienza dei governi precedenti. Le condivideva al punto che, dopo il crollo del governo di Ashraf Ghani, Mursal Nabizada era stata netta. Parlando alla televisione nazionale aveva detto: «Nel precedente governo tutti amavano la propria posizione di potere, nessuno voleva perdere posizione e stipendio e tutti usavano i propri poteri e la propria autorità per favorire sé stessi e non per aiutare la povera gente».

Erano state la corruzione e le lotte intestine a favorire l’ascesa talebana. Non solo ne era consapevole, ma aveva avuto il coraggio di denunciarlo.

Con lo stesso coraggio era rimasta a vivere nell’Afghanistan dei talebani lavorando per un ente di beneficienza. Con lo stesso coraggio ha sfidato l’amministrazione talebana dicendo che anche la loro gestione del potere subiva l’influenza di Paesi esterni, osteggiando la chiusura delle scuole femminili: «Ora le donne sono imprigionate, vivono come sepolte vive in una tomba». Un rimprovero pubblico che non le è stato perdonato.

A metà gennaio è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco davanti casa, insieme alla sua guardia del corpo.

Il ritiro del 2021, le sanzioni e il collasso

La sopravvivenza degli afghani ha a che fare con l’oscurantismo dell’Emirato Islamico ma ha anche a che fare con gli effetti devastanti delle sanzioni economiche che hanno seguito la presa del potere da parte talebana. In più, per negare loro l’accesso ai fondi, l’amministrazione Biden ha poi congelato più di 7 miliardi di dollari di riserve del governo afghano detenute nella Federal Reserve Bank di New York.

Prima dell’agosto del 2021, l’economia afghana dipendeva per il 75% dall’assistenza straniera. Significa che con i fondi internazionali venivano pagati non solo progetti di sviluppo ma anche gli stipendi dei dipendenti. Nei primi mesi di dominio talebano le sanzioni occidentali e le restrizioni bancarie hanno portato rapidamente l’Afghanistan all’isolamento economico. La Banca Centrale Afghana non può più interagire con il sistema bancario internazionale e le istituzioni finanziarie internazionali. I governi donatori, guidati dagli Stati Uniti, hanno incaricato la Banca mondiale di tagliare circa 2 miliardi di dollari di assistenza internazionale esterna che la banca gestiva attraverso l’Afghanistan Reconstructive Trust Fund (ARTF) per pagare gli stipendi di milioni di insegnanti, operatori sanitari e altri lavoratori essenziali, e attraverso progetti finanziati dall’Associazione Internazionale per lo Sviluppo (IDA). Anche il Fondo monetario internazionale, USAID, e la Banca asiatica di sviluppo (ADB) hanno tagliato i finanziamenti, con la conseguenza che milioni di famiglie dalla sera alla mattina sono state private delle fonti primarie di reddito che avevano garantito loro la sopravvivenza per anni. Nei dodici mesi successivi al ritorno al potere dei talebani, secondo i dati del Programma Alimentare Mondiale, quasi nessuna famiglia, in Afghanistan ha riportato forme di reddito. Milioni di persone senza entrate. Ecco perché la contraddizione della povertà del Paese è tutta nell’immagine dei suoi mercati e delle sue botteghe. Piene di cibo che nessuno può comprare. Spinti dal rapido peggioramento delle condizioni di vita nel Paese, a dicembre 2021 e febbraio 2022, gli Stati Uniti hanno rilasciato alcune «licenze» che consentono alle organizzazioni internazionali di fornire cibo e prodotti agricoli, sostenere gli ospedali pubblici e pagare gli stipendi di insegnanti e operatori sanitari. Autorizzano inoltre le banche a elaborare transazioni relative a queste attività senza essere punite.

Ma la Banca Centrale afghana resta tagliata fuori dal sistema bancario internazionale, non può accedere alle sue attività in conti esteri, perché le banche centrali degli Stati Uniti e di altri Paesi, e la Banca Mondiale, ancora non riconoscono le credenziali di nessun attuale funzionario bancario. E, secondo i funzionari delle Ong, molti gruppi umanitari, organizzazioni umanitarie e istituti bancari rimangono cauti nel violare le sanzioni statunitensi.

L’effetto è una crisi permanente, un tentativo continuo di tamponare un’emergenza che non diminuisce e non lascia spazio alla ripresa economica del Paese, cioè l’unica possibilità per gli afgani di fuggire dalla povertà che minaccia le loro vite e le destina all’attesa di aiuti esterni che sono sempre di natura emergenziale.

Tradizionalmente, infatti, gli aiuti sono classificati come umanitari o per lo sviluppo. I primi si concentrano sulla risposta alle crisi e sugli sforzi salvavita, mentre i secondi sono progetti a lungo termine e dovrebbero essere orientati a sviluppare l’economia di un Paese per prevenire crisi future.

All’Afghanistan, oggi, sono indirizzati solo aiuti salvavita che oltre a essere largamente insufficienti, servono solo a tamponare una crisi che peggiora di giorno in giorno e non prevedono alcun progetto che possa ripristinare un settore pubblico funzionante, emancipare milioni di persone da una vita condizionata dall’aiuto umanitario.

Sono un palliativo. Necessario, ma pur sempre un palliativo.

L’eredità occidentale

Il mese scorso un’inchiesta del Wall Street Journal ha svelato che più di 7 miliardi di dollari in attrezzature militari fornite dagli Stati Uniti e dagli alleati sarebbero oggi in mano talebana.

Secondo il rapporto, il ritiro improvviso e non coordinato dall’Afghanistan, i problemi di pianificazione e la mancata supervisione dell’assistenza militare hanno non solo contribuito al crollo del governo sostenuto dall’Occidente, ma hanno lasciato nelle mani dei talebani un arsenale che include aerei, missili, dispositivi di comunicazione e dispositivi biometrici. È un pezzo della rovinosa ritirata occidentale.

Oggi i talebani sono un fatto. È un fatto la loro amministrazione. È un fatto il mancato rispetto dei diritti umani. Così come è un fatto che i corridoi umanitari, su cui pure il nostro Paese è impegnato, non siano sufficienti a salvare la vita dei tanti che non resistono più sotto l’Emirato Islamico. I tanti che, sfiniti dalla povertà e dall’oscurantismo, preferiscono rischiare la vita dei loro figli in viaggi lunghi e pericolosi che farli morire di fame in Afghanistan.

La crisi umanitaria afghana riguarda tutto l’Occidente che per vent’anni ha investito miliardi in spese militari e che oggi assiste alle morti in mare di chi non è riuscito a salvare.

I morti in mare di Cutro ci impongono non solo uno sguardo lucido su cosa accada lì, ma soprattutto ci impongono un dilemma. Inghiottire la pillola di collaborare con l’amministrazione talebana per assicurare i servizi minimi a milioni di persone o perseguire la politica delle sanzioni che hanno dimostrato di non piegare la rigidità talebana e, forse, non piegare il consenso di un pezzo di Paese che l’Occidente non ha mai voluto conoscere.


(La Stampa, 15 marzo 2023)

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