17 Luglio 2019
La Stampa

La creativa Giorgia Lupi: «Voglio stupirvi traducendo i numeri in esperienze»

di Emanuela Griglié


Di solito, quando si tratta di evoluzione tecnologica e lavoro, è soprattutto per angosciarsi e fare la conta delle professioni che spariranno. Buona notizia. Ce ne sono altre, e addirittura di formazione umanistica, che stanno fiorendo.

Vedere il caso di Giorgia Lupi, italiana di Modena, classe 1981, prima e unica designer dell’informazione a diventare partner del prestigiosissimo studio Pentagram di New York (praticamente tutti i loghi che ci sono più familiari sono stati creati lì) con mostre in tutto il mondo, dal MOMA al Circolo del design di Torino (dove i suoi DearData resteranno esposti fino al 20 settembre). Pioniera in questo campo, che propone un nuovo approccio ai dati per renderli più umani.

«Umanesimo dei dati, quasi un ossimoro» lo definisce lei, che vive ormai da anni a New York. «Tutte le aziende in qualsiasi ambito, oggi, hanno moltissimi dati a disposizione: praticamente su tutto quello che può essere misurato. Spesso però non vengono visualizzati, se non in forma di ostici Excel, e fanno fatica a essere compresi. Quindi prima di tutto il mio lavoro è funzionale: tradurre i numeri anche di larga scala in qualcosa che possa essere digeribile e visibile e aiutare, quindi, a capire come funziona un’organizzazione e, in seconda battuta, agevolare i processi di decision making – spiega Lupi -. Poi i dati possono essere anche un mezzo per raccontare delle storie. Narrazioni meno lineari di un articolo di giornale, ma più profonde, perché dense di informazioni. E anche più attraenti. Possono assumere varie forme: un’installazione artistica o una app per telefoni».

Laureata al Politecnico di Ferara in architettura, che Lupi sceglie perché all’epoca era l’unica chance per coniugare una base scientifica con il bisogno di esprimerla in maniera creativa. «Ero molto appassionata dall’idea del design, ma in Italia, in quegli anni, esisteva solo quello del prodotto e dei mobili. Non veniva ancora considerato come aspetto strategico della comunicazione. Mi sono quindi interessata all’urbanistica, che è già una forma di “infomation design”. In tutta la cartografia e pianificazione delle città si fa astrazione della realtà e questa si traduce in simboli per andare a rappresentare cose possibili o esistenti». Tra Milano e New York fonda, nel 2011, la sua società Accurat, che oggi ha quaranta dipendenti e clienti prestigiosi.

Per Giorgia Lupi qualsiasi storia di dati è importante. «In questo momento storico, in cui si parla tanto di cambiamento climatico, moltissime persone fanno fatica ancora a crederci. Vedo tanti numeri sul “climate change” che sono molto sterili: sono proiezioni di temperature e ghiacciai. Nessuno fa vedere mai quello che ci accadrà giorno per giorno. Per esempio visualizzare i colori e i suoni degli uccellini che non sentiremo più cantare nel nostro cortile, perché si sposteranno per via dell’aumento delle temperature. La sfida dell’information design è proprio quella di riuscire a farci capire fenomeni grandi, ma a livello della nostra vita individuale».

Quindi l’obiettivo non è soltanto visualizzare bene i dati disponibili, ma anche cercarne di nuovi. Del resto l’importanza dei Big Data è sopravvalutata. «La conversazione intorno ai dati sta completamente cambiando: le grandi società non ne hanno più il controllo totale, perché tutti quanti noi consumatori ci siamo resi conto che c’è un problema di privacy. Proprio su questo tema sto scrivendo il mio nuovo libro, come approcciarsi in maniera nuova a questo settore. Ci sono poi altri dati molto interessanti che riguardano la nostra quotidianità e collezionarli è una forma di “empowerment”. Nel 2014 – continua – ho fatto questo esperimento con Stefanie Posavec, anche lei “information designer” che vive a Londra. Non ci conoscevamo e per un anno ci siamo spedite delle cartoline in cui raccontavamo la nostra vita l’una all’altra, raccogliendo dati molto soggettivi e personali – non quante calorie accumuli e quanti passi fai, che sono cose che qualsiasi dispositivo digitale può calcolare – trasformandoli poi in disegni, in modo molto analogico e manuale». Progetto che è diventato un libro e la mostra «DearData».

«Ora lavoro con la giornalista del New Yorker Sarah Stillman, che negli ultimi anni ha collezionato una serie di storie su immigrati richiedenti asilo politico negli Usa e deportati nelle loro nazioni d’origine, dove erano in pericolo di vita e dove in molti casi sono stati uccisi. Sarà una narrativa interattiva attraverso visualizzazioni dinamiche per far capire il vero peso delle politiche sull’immigrazione sulle vite delle persone». Dati umani, appunto.


(La Stampa, 17 luglio 2019)

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