21 Agosto 2023
la Repubblica

La cultura che il femminismo denunciava continua a lavorare sotterraneamente

di Chiara Saraceno


L’accavallarsi di femminicidi, stupri o tentati stupri, molestie sessuali più o meno pesanti, ma anche ritardi negli interventi giudiziari, sottovalutazione delle denunce e richieste di aiuto, sentenze di assoluzione con argomentazioni sorprendenti, mostra che siamo di fronte ad un enorme problema culturale. Riguarda trasversalmente tutti i ceti sociali e tutte le istituzioni, in particolare di quelle – polizia, carabinieri e magistratura – che avrebbero il compito non solo di evitare che accada il peggio e di proteggere le vittime, ma anche di ribadire l’inviolabilità del corpo femminile. «Il corpo è mio e lo gestisco io» cantavano le femministe negli anni Settanta, per denunciare il divieto di contraccezione e aborto, la doppia morale che consentiva agli uomini ogni libertà sessuale, ma divideva le donne in “perbene” e “puttane” solo in base al loro comportamento sessuale. A cinquant’anni di distanza, non solo la cultura che il femminismo denunciava continua a lavorare sotterraneamente, ma quel canto liberatorio da troppi uomini viene rovesciato in “la donna è mia e ne faccio quello che voglio io”. Sono gli uomini che uccidono le proprie compagne o ex compagne perché non ne accettano comportamenti e decisioni, come se la ferita narcisistica di una separazione o dell’essere sostituiti con qualcun altro potesse essere solo sanata con il sangue – con il buon vecchio delitto d’onore. Sono gli uomini che ubriacano le proprie amiche o chi incontrano per caso una sera al bar o in discoteca, o aspettano che lo facciano da sole, per poi stuprarle. Sono gli uomini che aggrediscono e violentano, anche in pieno giorno, una donna che passeggia, va al lavoro, corre in un parco. Sono gli uomini che mettono le mani addosso, palpeggiano, si strusciano, sui mezzi pubblici, al lavoro, persino sulle scale di una scuola. Purtroppo questi uomini talvolta trovano responsabili della sicurezza che non ascoltano con abbastanza attenzione le denunce e richieste di aiuto delle donne, come è avvenuto da ultimo ad Anna Scala, uccisa dall’ex marito nonostante mesi di denunce che non sono bastate a far scattare il codice rosso e relativo protocollo di messa in sicurezza. Talvolta trovano giudici che giustificano il femminicidio con l’attenuante della provocazione da parte della vittima, non perché questa avesse iniziato per prima ad aggredire chi poi la ha uccisa, ma perché con il suo comportamento (rapporti con altri uomini) lo aveva offeso, una riedizione del delitto d’onore.

Oppure lo giustificano, come è avvenuto di recente al tribunale di Roma in un caso di stupro di gruppo, perché gli autori «condizionati da un’inammissibile concezione pornografica delle loro relazioni con il genere femminile hanno errato nel ritenere sussistente il consenso».

Analogamente significativa è stata la sentenza che ha mandato assolto il bidello che aveva messo le mani nelle mutandine di una ragazza che saliva le scale, sollevandola poi di peso. La brevità dell’atto, il fatto che sia avvenuto in luogo pubblico, ha indotto la giudice a valutarlo come gesto scherzoso. Poi ci si stupisce che le donne facciano così fatica a denunciare.

Minacciare la castrazione chimica, come periodicamente propone Salvini, non serve. Il timore della pena non è mai stato un deterrente efficace per i delinquenti, non si vede come possa esserlo per chi non è capace culturalmente di accettare l’autonomia delle donne e l’inviolabilità dei loro corpi. Occorre certo rafforzare gli strumenti che rendono operativo il codice rosso. Ma occorre anche un lavoro culturale diffuso che aiuti a costruire un modello di maschilità che non dipenda da un malinteso senso di superiorità e possesso nei confronti delle donne, e anche che sia meno animalesco – «Faceva un po’ schifo – ha scritto in una chat uno dei sette stupratori di una ragazza di Palermo – eravamo come cento cani sopra una gatta, ma la carne è carne». Un lavoro che deve iniziare dai bambini e dai loro educatori/educatrici, rafforzare il processo già iniziato nelle Forze dell’ordine, investire sistematicamente la magistratura. Anche il sistema di comunicazione deve fare la sua parte e le sue autocritiche.


(la Repubblica, 21 agosto 2023, pubblicato con il titolo “Come educare i maschi”)

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