28 Ottobre 2023
Il Quotidiano del Sud

La donna che saluta il suo carceriere con shalom (pace)

di Franca Fortunato


Ci sono gesti, di cui sono capaci più donne che uomini, che hanno la forza di stravolgere la realtà, indicare la strada giusta e illuminare la speranza davanti alla catastrofe. Mi riferisco al gesto di Yocheved Lifschitz, la donna israeliana di 85 anni, che presa in ostaggio da Hamas, dopo la sua liberazione insieme a un’altra donna, stringe la mano al suo carceriere con un Shalom (“pace”). Un gesto imprevisto il suo, inaspettato, impensato, spiazzante che va nella direzione opposta a quella imboccata da Israele dopo l’attacco terroristico di Hamas. Un gesto che avrà colto di sorpresa anche il suo carceriere che non l’ha respinto ma ricambiato. Una donna e un uomo, un’ebrea e un terrorista di Hamas, una vittima e un carnefice, che si stringono la mano in segno di riconciliazione, mentre tutto intorno non è che morte e distruzione, odio e ritorsione, sangue e vendetta nei confronti di un popolo disarmato, inerme, vittima a sua volta di una feroce occupazione e oppressione, è un’immagine simbolica potentissima di un desiderio di pace e non di guerra, di amore e non di odio tra due popoli che vogliono vivere sulla stessa terra. Eppure quella donna non ha dimenticato l’“inferno” che ha vissuto e al quale non pensava sarebbe “sopravvissuta”. «Sono riusciti a distruggere il recinto – ha raccontato -. Hanno attaccato le nostre case, ucciso e rapito vecchi e giovani, senza distinzione. Le immagini di quello che è successo si ripetono nella mia mente, da quando mi hanno legato su una motocicletta e mi hanno subito rubato l’orologio e i gioielli. Mentre attraversavamo i campi un altro motociclista mi ha percosso con un’asse di legno […]. Abbiamo camminato sottoterra per chilometri, per due o tre ore, in una ragnatela di tunnel, fino a raggiungere una grande sala, dove eravamo un gruppo di venticinque persone e ci hanno separato in base al kibbutz di provenienza […]. Ciascuno di noi aveva una guardia». Nelle donne come lei, della sua generazione, che hanno conosciuto la Shoah e hanno sempre lavorato per la pace tra israeliani e palestinesi – lei col marito era solita trasportare i palestinesi malati da Gaza alle cure mediche in Israele – riconosco l’eredità di Etty Hillesum, morta ad Auschwitz all’età di ventinove anni. «Se tutto questo dolore – scrive nel suo Diario – non allargherà i nostri orizzonti e non ci rende più umani […] è stato tutto inutile […]. Non si combina niente con l’odio. Convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale». Da sempre, e ancora oggi, quell’immane tragedia simbolicamente è stata l’arma più potente nelle mani dello Stato d’Israele, che, nato all’indomani della Shoah, è stato identificato come uno stato “vittima” per nascondere la realtà e i crimini contro il popolo palestinese. Quella donna con il suo gesto ha distrutto quell’arma e il mondo può guardare la tragedia di un popolo “oppresso”, “umiliato”, “colonizzato”, “disperso”, “esiliato”, “odiato”, “massacrato”. Il popolo palestinese non è Hamas. Non meno sorprendente è stata la risposta di quella donna alla domanda del perché abbia stretto la mano al suo carceriere. «Mi hanno trattata bene. Le guardie davano ai prigionieri lo stesso tipo di cibo che mangiavano loro. Un medico visitava ogni giorno e forniva medicinali e cure, anche per un ostaggio ferito in un incidente in moto». È ancora una donna a indicare la strada della riconciliazione e non dell’invasione, della pace e non della guerra, della convivenza e non della diaspora. L’uccisione di 7000 palestinesi di cui 3000 bambine/i non è diritto alla difesa né lotta al terrorismo, ma genocidio di un popolo. Fermate Israele, liberate gli ostaggi.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 28 ottobre 2023)

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