16 Giugno 2018
il manifesto

La libertà femminile non è negoziabile

di Francesca Lazzarato

Tempi presenti. A proposito dell’occupazione femminista delle università cilene. I primi segnali nel 2016. E da due mesi mobilitazioni nelle facoltà e cortei con il supporto di molte donne. No alle disuguaglianze e agli atti di misoginia diffusa, da parte di professori e insospettabili intellettuali. Via i docenti accusati di aver molestato o violentato studenti e, ricercatrici. La richiesta più forte è però di andare verso una «educazione non sessista» di tutte le differenze.

Quando, all’inizio del 2016, Macarena Orellana e Dina Camacho, studentesse della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Universidad de Chile, accusarono di molestie Leonardo León, Direttore del Dipartimento di Storia, il loro esposto rischiò di impantanarsi in una delle concilianti risoluzioni del Senato Accademico che, com’era accaduto in passato, si sarebbe limitato a una multa e un richiamo verbale, se dopo quella di Macarena e Dina non fosse arrivato un diluvio di nuove denunce, costringendo il professore ad abbandonare il suo incarico.

Questa è, probabilmente, una delle scintille che insieme a mille altre hanno finito per appiccare il fuoco divampato nel corso degli ultimi due mesi nelle Università cilene, anche se le ragioni e le cause di quella che in Cile tutti chiamano la ola feminista non sono da cercare solo nelle proteste per gli abusi, i ricatti sessuali e gli stupri da parte di compagni di studi e professori, confluite il diciassette aprile di quest’anno (contemporaneamente, in virtù di un’inattesa giustizia poetica, alla condanna del professor León a nove anni di carcere per aver violentato la propria figlia) nella prima occupazione compiuta esclusivamente da studentesse: un fenomeno che si è esteso con incredibile rapidità, chiudendo ai maschi le porte degli istituti universitari, perché, dicono le ragazze,«non vogliamo incontrare i nostri abusatori nei corridoi».

Facoltà chiuse, dunque, e rivendicazioni aperte. La prima: via i professori (a volte molto noti, come Carlos Carmona, ex presidente del Tribunale Costituzionale, o Jorge Hasbún, direttore dell’Hospital Clínico de la Universidad de Chile) accusati di aver molestato o violentato studentesse, ricercatrici, lavoratrici dell’Università, e di averne ostacolato la carriera. La seconda: predisporre appositi protocolli per rispondere efficacemente alle denunce. La terza: il rifiuto del ruolo quasi ancillare assegnato a studentesse e insegnanti, in gran parte escluse dal potere accademico e da ogni decisione. La richiesta più forte, più perentoria e sentita, è però quella di ribaltare i privilegi e i pregiudizi maschili, solidissimi in Cile, per andare verso una nuova «educazione non sessista», inclusiva non solo del femminile, ma di tutte le possibili differenze.

Con l’appoggio di studiose, scrittrici, giornaliste, accademiche, donne di ogni generazione e condizione, le mobilitazioni e i gesti clamorosi si sono susseguiti fino all’ultimo, immenso corteo che ha sfilato a Santiago il 6 giugno, connotato da coreografie provocatorie: gruppi di ragazze con il volto coperto da passamontagna di stoffa rossa e il seno scoperto, file di giovanissime con indumenti macchiati di sangue mestruale, o pronte a mostrare sederi nudi e tondi… Danze, mortaretti, fuochi, striscioni, slogan: «Il posto della donna è la resistenza»; «Nessuna bambina dovrebbe aver paura di essere intelligente»; «Vogliamo professori, non abusatori», «La rivoluzione sarà femminista, o non sarà».

Come in un carnevale calcolato ed eccessivo, si è fatto ricorso a simboli esplosivi: corpi in movimento di ogni taglia e forma, dipinti, travestiti, danzanti, denudati ed esibiti, in una sorta di contro-pornografia che deride il voyeurismo maschile e lo costringe a un grottesco, imbarazzato ridacchiare. In un paese che pure ha una lunga tradizione di lotte studentesche contro uno dei sistemi scolastici più classisti del continente, finanziato dallo Stato solo al 25% e ancora di difficile accesso per chi non è nato, come i «biondini» della canzone di Victor Jara, nelle casitas del barrio alto, non era mai accaduto nulla del genere.

E nulla del genere avevano previsto le pur lungimiranti e combattive femministe storiche cilene del secolo scorso, da Julieta Kirkwood ad Amanda Labarca, o la sinistra che in tutte le sue incarnazioni, dai partiti tradizionali al Frente Amplio, sembra non riprendersi ancora dalla rielezione di Sebastián Piñera, che a sua volta si attendeva, forse, una replica delle manifestazioni studentesche del 2011, e invece si è trovato alle prese con un esercito di ragazzine arrabbiate, colte, pensanti, che hanno respinto il suo pronto tentativo di elaborare una poco credibile «Agenda femminista» e di placarle con la promessa di una futura ammissione nella stanza dei bottoni (del resto, che credito dare a un presidente che durante l’ultima campagna elettorale si è concesso battute del genere: «Propongo un gioco: tutte le donne si sdraiano per terra e fanno le morte, e noi ci sdraiamo sopra di loro e facciamo i vivi»?)

Da destra e da sinistra, con toni e sfumature diverse, tutti si sono in qualche modo affrettati a riconoscere il carattere dirompente della protesta femminile, così radicale e mediatica, cosi concreta e allo stesso tempo utopica, così decisa a scavare a fondo nella cultura cilena e a lasciarvi una traccia. All’insegna del «non possiamo non dirci femministi», nascono discussioni complesse e amare come quella tra lo scrittore Rafael Gumucio e la politologa Javiera Arce, che sulla rivista The Clinic si chiedono se questa non sia la lotta di alcune privilegiate che lasciano indietro quante non hanno voce (lo sapranno, le furenti studentesse «senza figli, senza impegni familiari e senza gravi problemi economici», che cos’è la lotta di classe?).

Si sentono voci suadenti come quella della psicoanalista Constanza Michelson, che celebra la parodia della rivolta messa in scena dalle ragazze a seno nudo, le loro «tette avvolte dalla politica»: «Se le donne devono mettere sul tavolo la questione del corpo, nella protesta, è perché questo è il primo territorio sul quale devono stabilire il proprio potere»; si levano squittii di ministre cattoliche e antiabortiste e di conduttrici televisive ansiose di ridurre il tutto a un’innocua replica cilena del #metoo; arrivano, da destra, i barriti nazisti di José Antonio Kast (una sorta di Salvini locale, ma teutonicamente biondo) che chiama al rispetto delle «vere» donne dai solidi valori, votate alle camicie da stirare.

E, mentre i «vecchi» discutono, interpretano, si scandalizzano, applaudono, le pragmatiche ragazze, sostenendosi l’un l’altra, scivolano su un’onda che, com’è ovvio, comincia a calare, ma, come tutte le onde, risorge un attimo dopo e già non è più la stessa. Cosa diventerà tra un attimo, tra un minuto, tra un giorno, saranno loro a dircelo; per adesso stanno ancora gridando: «Io sì che ti credo, sorella», a tutte quelle che gli altri non hanno voluto ascoltare.

 

(il manifesto, 16 giugno 2018)

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