21 Maggio 2022
Il Quotidiano del Sud

La lingua del potere e la lingua della vita

di Franca Fortunato


La tragedia della guerra che si sta consumando nel cuore dell’Europa ci restituisce immagini di donne molto diverse se il nostro sguardo, dentro e fuori l’Ucraina, si sposta dalla scena del potere, dove le donne parlano la lingua degli uomini, alle donne “comuni”, che parlano la lingua della vita. Da donne delle istituzioni europee e dei Parlamenti dei vari Paesi, da premier di Stati o dalla portavoce dell’Allenza atlantica, non sono arrivate parole o gesti discordanti da quelle degli uomini:  “gli ucraini vinceranno”,  “armi”, sempre più armi, “sanzioni”, sempre più sanzioni, a costo di strangolare i popoli europei non meno di quello russo, “nessuna trattativa fino alla vittoria”, pur sapendo del rischio di una guerra nucleare e di una crisi alimentare globale preannunciata e non scongiurata, quasi fosse un cataclisma naturale. Il tutto accompagnato da parole quali “libertà”, “autodeterminazione”, “valori occidentali”, “democrazia”, “bene” e “male”. Parole di uomini quelle della vice prima ministra ucraina, Iryna Vereščuk, che ad ogni apparizione televisiva ribadisce che con il nemico non si tratta, lo si annienta. Ma quello che ogni volta (mi) colpisce è l’odio che traspare dalle sue parole, non tanto contro Putin quanto contro tutto il popolo russo, come se lì non ci fossero state e non ci siano manifestazioni e proteste, col rischio di finire in carcere, o dimissioni e prese di posizioni contro la guerra, insomma una resistenza non violenta. Resistenza quotidiana attraverso atti simbolici come indossare abiti azzurri e gialli, portare un nastro verde al braccio, o portare in tv, nel giorno della parata della Vittoria, un cartello con scritto: «Il sangue di migliaia di ucraini e centinaia dei loro bambini assassinati è sulle tue mani. La tv e le autorità mentono. No alla guerra» o cartelli sul territorio con l’immagine di un veterano che dice: «Mi vergogno di voi nipoti. Noi abbiamo combattuto per la pace, voi avete scelto la guerra». Resistenza del movimento degli obiettori di coscienza la cui coordinatrice, Elena Popova, arrestata e poi rilasciata mentre distribuiva volantini che incitavano le madri a non mandare i propri figli in guerra, sostiene con avvocati i soldati che si rifiutano di andare in guerra o di tornarci, o i “disertori” all’interno delle forze armate. Parole vicine alla vita, al dolore delle madri, senza odio, sono quelle di un’anziana russa ucraina: «A chi serve questa guerra? Non riesco a capire, io sono una russa, loro sono russi. Perché sono venuti qui a uccidere i nostri bambini? Perché se hanno gli stessi bambini che abbiamo noi? Ho chiesto al soldato russo se anche lui aveva figli. Lui ha detto di sì. Gli ho chiesto perché sono venuti per uccidere i nostri bambini e lui non ha saputo rispondere». Parole di vita dette con gli occhi dalle due amiche Albina (russa) e Irina (ucraina), mentre reggono la croce il Venerdì Santo. Parole di vita di Alissa (russa) e Olia (ucraina), amiche chef di Londra, dove con un appello hanno coinvolto i ristoratori nell’aiuto a profughe ucraine. Parole di vita di Kseniya Forte, russa d’origine, che a Cremona ha aperto la sua casa a una madre ucraina con due bambini e con la suocera. «Vita e la sua famiglia non sapevano che io fossi russa. In auto, di ritorno dalla stazione vedendo che parlavo russo, me lo hanno chiesto. Io sono di San Pietroburgo, è un problema?» La risposta è stata: «Nessun problema. È stata l’inizio di un’amicizia». Parole e gesti di donne che, tra tanto odio, sangue e violenza, tessono e custodiscono i fili della pace e dell’umano, al di là e oltre la barbarie della guerra.


(Il Quotidiano del Sud, 21 maggio 2022)

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