6 Aprile 2023
il manifesto

La patria potestà non esiste più, ricordiamocelo

di Niccolò Nisivoccia


Il dibattito dei giorni scorsi intorno alle madri detenute è stato capace, in una volta sola, di infliggere due torti, e di infliggerli entrambi non solo alle donne, indipendentemente da qualunque discussione di natura femminista (quale che sia l’accezione di femminismo alla quale ciascuno preferisca accedere, essendo il femminismo molto variegato e plurale al proprio interno), ma anche a una visione aggiornata e moderna della società in cui dovremmo vivere, anche al di là degli orientamenti politici: un torto sostanziale, da un lato, riguardante il contenuto specifico della proposta di legge avanzata dalla Lega; un torto formale, ma formale solo in apparenza (e perciò non meno grave), da un altro lato, sotto l’aspetto delle parole da cui il dibattito è stato accompagnato, da ogni parte.

Il contenuto della proposta, in primo luogo. In realtà i commenti e le polemiche lo hanno quasi subito sopravanzato, come purtroppo succede troppo spesso: anzi, ormai ci siamo perfino abituati a capire poco di ciò di cui si parla, ci accontentiamo di opinioni precostituite senza più neppure pretendere, né dagli altri né da noi stessi, delle ricognizioni oggettive che ci consentano di capire le ragioni di un’opinione o di un’altra. Maturiamo un’opinione sopra un fatto, ma per pura e semplice adesione all’opinione espressa da altri, in un circolo quasi sempre vizioso: e troppo spesso neppure noi sapremmo più dire, alla fine, in cosa consista o consistesse quel «fatto». Ed è successo, in una certa misura, anche in questo caso, perché alla proposta della Lega tutti hanno fatto riferimento senza mai riportarne il testo.

Tuttavia a risultare chiara, in questo caso, è quantomeno l’ispirazione da cui il testo è sorretto, perché a esplicitarla senza mezzi termini è stato il viceministro Edmondo Cirielli (non un soggetto qualsiasi, quindi, ma il viceministro degli Esteri, esponente della medesima maggioranza di cui fa parte la Lega): «Se una madre viene condannata e finisce in carcere le si deve togliere la patria potestà, visto che se si va in carcere vuol dire che si è commesso un reato grave punibile con almeno cinque anni». E qui il punto è questo: non dovrebbe appartenere a tutti, tanto più a chi rivendica a voce alta le proprie radici cristiane e cattoliche, la convinzione che nessuno di noi si risolve in un gesto compiuto, fosse anche il più efferato? Due versi di David Maria Turoldo, ad esempio, lo dicono meravigliosamente: «perché ogni uomo/è una infinita possibilità». Nessun gesto potrà mai esaurirci, perché ciascuno di noi porta sempre con sé un mondo molto più ampio, nelle sue potenzialità, di qualunque singola azione.

Ma in secondo luogo le parole. Tutti, non solo Cirielli, hanno parlato di “patria potestà”: in ogni sede, a destra come a sinistra, su tutti i giornali, dovunque. E qui il punto è questo: la «patria potestà», in Italia, non esiste più né come concetto né come espressione linguistica da quasi cinquant’anni. Non solo: da dieci anni, in relazione al rapporto fra genitori e figli non esiste più neppure la parola «potestà». Nel 1975 era stata la riforma del diritto di famiglia a sostituire la «patria potestà» con la «potestà genitoriale», per volontà di superamento sotto ogni profilo, anche linguistico, di un’idea di famiglia patriarcale, in favore di una famiglia che veda i genitori in una situazione di completa uguaglianza fra loro; e poi più di recente, nel 2012, è stata una riforma in materia di filiazione ad eliminare anche la parola “potestà”, a favore della parola “responsabilità”, che molto meglio esprime e restituisce la concezione di un rapporto che non impone solo, rispetto ai figli, «poteri» e «doveri» esercitati dall’alto, verticalmente, bensì è molto più complesso.

Continuare a parlare di «patria potestà», insomma, è semplicemente e gravemente scorretto. Ma cosa rivela, più nel profondo, questa scorrettezza? Quale rimozione tradisce, questa incapacità ad aggiornare e ad adeguare il nostro linguaggio? Rivela forse il desiderio, ancora pervasivo anche quando inespresso o addirittura combattuto, di una famiglia patriarcale o più in generale di una società autoritaria?

Vorrebbe dire che la legge ci cammina molto davanti, da questo punto di vista; e che noi da parte nostra non riusciamo ad affrancarci da modelli che dovrebbero essere lasciati al passato. Come se non lo confessassimo ma il linguaggio ci tradisse. Oppure non è così: ma allora vorrebbe dire che dovremmo imparare a parlare meglio, e correttamente.


(il manifesto, 6 aprile 2023)

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