24 Settembre 2022
il manifesto

La poesia e la sconfitta

di Alexandra Petrova


«Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta» 
Adam Zagajevskij


Da sei mesi non riesco a non pensare neanche per un’ora alla guerra che l’esercito russo ha iniziato la mattina del 24 febbraio su ordine del governo russo. Non ci sono scuse per questa guerra, che non è solo un’onta indelebile per tutti i cittadini russi, compresi quelli che vi si oppongono, ma lo è anche per le persone che come me, se pur vivono all’estero da decenni, continuano a parlare e scrivere nella loro madrelingua.

Se la patria è madre, allora mia madre è una serial killer. O forse è stata presa in ostaggio, è una vittima di violenza domestica? La sua volontà comunque è asservita alle forze oscure. Non ha saputo ribellarsi. E poi non è un po’ troppo comodo pensare di essere una vittima che annuisce a un burattinaio? E se vogliamo parlare di responsabilità, forse anche io avrei dovuto parlare con più sicurezza e a voce più alta di come sono state coltivate certe tendenze, direi delle fissazioni imperialiste, condividere non solo con gli amici più stretti le mie premonizioni di lunga data su questa guerra, ricordare di continuo che la Russia ha iniziato la guerra in Georgia nel 2008 e si è impadronita di una parte del suo territorio, parlare della guerra cecena in cui l’esercito russo ha dato prova di crudeltà e sadismo senza precedenti, ricordare che la Russia ha bombardato città civili in Siria, che nel 2014 ha annesso un territorio dell’Ucraina, di un altro paese sovrano, che… Ma non si sapeva forse già? Non sono stati pubblicati i libri di Anna Politkovskaja in tutto il mondo, compresa l’Italia? Non accadeva tutto di fronte al mondo intero? Gli affari però sono molto più importanti della graduale perdita di varie libertà dei cittadini di un paese e delle sue aggressioni verso gli altri. Il gas, il petrolio, il denaro. Così, come si può vedere, sto cercando di spalmare un po’ la responsabilità, e perfino le colpe (che gravano giustamente sui russi) sul mondo, almeno quello occidentale. Con questo non voglio dire che ci sono due verità, ma vorrei ricordare che questa guerra non è solo l’ennesima sconfitta del mondo russo, ma anche in parte di quello occidentale.

Le grandi sconfitte sono fatte anche dalle storie personali. Mio nonno materno è nato a Kharkov, in ucraino Kharkiv, il mio bisnonno a Kiev, anche se, come la mia bisnonna, ha vissuto tutta la vita a Kharkov, che all’epoca era il capoluogo dell’Ucraina. Il mio bisnonno era un artista e un fotografo. Dilettante, perché per il suo rango doveva essere al servizio dello stato. Creava lanterne magiche per le quali vinceva premi nazionali e internazionali e insegnava il disegno anche gratuitamente, faceva dei corsi aperti per i giovani perché credeva che l’uomo che ama l’arte non potrà mai diventare cattivo. Era nato nel 1871, e come si sbagliava! Dopo la Rivoluzione non poté più fare ciò che amava. Il suo laboratorio fu espropriato e distrutto selvaggiamente. Suo figlio, mio nonno, si trasferì a Mosca, dove all’epoca viveva mia nonna, e nel 1930 fu arrestato come anarchico-mistico. Dopo la prigione fu mandato in Kirghizistan, dove, in un posto che non esisteva sulla mappa, nacque mia madre. La guerra separò mio nonno e mia nonna. Lei e mia madre, all’inizio dell’invasione tedesca dell’URSS, si trovavano in Bielorussia, dove mia nonna insegnava inglese alla scuola ufficiali. Questo la salvò quando riuscì a salire sull’ultimo treno in partenza da Kalinkovichi insieme ai futuri ufficiali, all’inizio dell’agosto del 1941. Il treno fu bombardato durante il tragitto, ma riuscì a giungere, anche se non nella sua interezza, in territorio libero. Il 21 agosto i tedeschi entrarono in città. A metà settembre, a tutti gli ebrei fu ordinato di trasferirsi nell’area a loro destinata, il ghetto. Il 20 settembre fu detto loro di indossare i loro abiti migliori e di attendere gli ordini. Il 21 settembre furono caricati su un camion e portati alla stazione ferroviaria da dove, appena un mese prima, era passato il treno che aveva portato via mia nonna e mia madre. C’era un lungo fossato vicino alla ferrovia. Ed è lì che venivano gettate le persone morte e talvolta ancora vive. I camion effettuarono 12 viaggi. In un solo giorno furono uccise 700 persone. Soprattutto bambini, donne e anziani. Nei mesi successivi gli ebrei rimasti furono braccati con l’aiuto della polizia locale e sterminati. Mia nonna era ebrea. Non per religione, come a volte si intende in Italia, ma per nazionalità, perché in URSS non c’era più la religione, ma la nazionalità invece era correttamente registrata in tutti i documenti, quindi i tedeschi non erano gli unici a tenere le liste. Oggi mia nonna e mia madre si trovano nelle liste della Shoah come sopravvissute. Ma per i tedeschi questo massacro era solo «un’azione», la chiamavano ufficialmente così. Non vi ricorda forse una certa «operazione speciale»?

Mio nonno fu nuovamente arrestato dopo la guerra, nel ’47, e inviato nel Gulag, dove visse fino alla metà del 1953. Tuttavia, anche dopo il rilascio, non gli fu permesso di vivere nelle grandi città, e nemmeno nel raggio di cento chilometri da esse. Per molto tempo mia madre non ha saputo che suo padre era vivo. Per caso, da uno sconosciuto, scoprì che era un nemico del popolo e non un eroe di guerra come aveva pensato, e quando finalmente, dopo la morte di Stalin, venne a Leningrado per vederla, lei non volle comunicare con lui. Mio nonno è morto solo, lontano dalla famiglia.

Non sapevo nulla di queste storie, finché un giorno, già adulta, non le ho scoperte per caso. Nella nostra società non si facevano troppe domande ai parenti. La mia è la storia di molti altri.

Poco prima di questa guerra avevo programmato di andare a Kharkov, la città dei miei antenati, di cui cercavo di sapere qualcosa da diversi anni. Non lontano dal luogo di nascita di mio nonno c’è una bella cittadina chiamata Chuguyev, dove si trova la casa-museo di un importante pittore, Ilya Repin, che nacque in Ucraina ma lavorò tutta la vita in Russia ancora prima della Rivoluzione d’Ottobre. In quel museo erano stati trovati alcuni documenti legati alla mia famiglia, e la direttrice del museo desiderava incontrarmi. La sera del 24 febbraio, in una giornata in cui tutto stava già precipitando fin dal primo mattino, ho letto la notizia dell’uccisione di un ragazzo di 14 anni a Chuguyev. A sei mesi dall’inizio della guerra siamo ormai abituati alla morte dei bambini. In quel momento mi è sembrato impossibile, assurdo, folle, e improvvisamente ho sentito che ancora una volta avevo perso i miei parenti, l’opportunità di ripristinare la storia.

Durante e dopo la Seconda guerra mondiale, a molti sembrò impossibile continuare a scrivere. Tuttavia, alcuni iniziarono, o continuarono a farlo, affinché la memoria non tradisse i morti e testimoniasse contro gli assassini. Prevedo quindi una nuova fioritura della letteratura ucraina, che ha già prodotto testi di grande valore. All’epoca non furono però solo le vittime e i vincitori a scrivere. Fortunatamente, anche alcuni autori tedeschi alzarono la voce contro la Germania nazista. Thomas Mann, che chiamava Tolstoj e Dostoevskij i suoi maestri, disse durante il suo discorso del 1945 La Germania e i tedeschi presso la Biblioteca del Congresso di Washington: «Non esistono due Germanie, quella del bene e quella del male, esiste solo una Germania, le cui migliori qualità, sotto l’influenza di un’astuzia diabolica, sono diventate il male personificato. La Germania malvagia è una Germania buona che ha sbagliato strada, si è messa nei guai, ha sguazzato nei crimini e ora sta affrontando una catastrofe. Ecco perché è impossibile per un uomo nato tedesco rinunciare completamente alla Germania cattiva, carica di colpe storiche, e dire: Io sono la Germania buona, nobile, giusta; guardate, indosso un vestito bianco. E vi consegno il maligno». 
Sconfitta, perdita, lutto – in questo momento è quello che io auguro alla Russia e ai suoi cittadini.

Purtroppo anche chi non è stato un complice dovrà bere questo calice amaro. Questa nuova sconfitta sarà più ovvia, più marcata, più fatale di tante altre che ha vissuto la Russia e che hanno prodotto grandissimi testi di Pushkin, Tolstoj, Cechov, Dostoevskij, Mandelshtam, Cvetaeva, Achmatova, Blok, Andrej Belyj. 
Per questo oggi vedo nella sconfitta della Russia una possibile purificazione, una rinascita, forse, un giorno, una nuova poesia. Non so se la guerra italiana in Etiopia abbia prodotto tutto questo. A prima vista sembra di no, anche se i 275.000 etiopi uccisi dovrebbero creare un’eterna insonnia. La guerra fatta dal tuo paese, soprattutto se è ingiusta, non può non lasciare tracce. Gli aguzzini e le vittime, gli osservatori, gli ignari e i negazionisti, in qualche modo sono e saranno toccati tutti. E poiché la cultura russa fa parte della cultura europea, questa sconfitta sarà sentita anche al di fuori della lingua russa. La sentirete anche voi.

Alexandra Petrova è nata a Leningrado, attuale San Pietroburgo, nel 1964. Laureata in Lettere all’Università di Tartu, in Estonia, dal 1999 vive a Roma dopo avere trascorso alcuni anni a Gerusalemme. I suoi testi poetici, molto noti in Russia e a livello internazionale, sono stati tradotti in diverse lingue, e in italiano si possono leggere nell’antologia La nuova poesia russa (Crocetti, 2003) e in un volume a lei dedicato, Altri fuochi (Crocetti, 2005). Nel 2016 è uscito in Russia il romanzo Appendix (“Appendice”), in larga parte ambientato a Roma, che ha vinto il Premio Andrej Belyj. L’intervento che qui si pubblica è una versione ridotta del discorso che Alexandra Petrova ha tenuto il 21 agosto a San Mauro Castelverde, in Sicilia, in occasione del Festival di poesia Paolo Prestigiacomo.


(Alias – il manifesto, 24 settembre 2022)

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