12 Settembre 2020
L'Osservatore Romano

La Rete Jasmine a supporto della leadership femminile

Nell’area del Mediterraneo


di Silvia Camisasca


È trascorso quasi un anno da quel 13 novembre 2019, in cui si sono date appuntamento a Palermo una ventina di donne in rappresentanza di 12 diversi Paesi dell’area Mediterranea: l’incontro nella Sala delle Lapidi di Palazzo delle Aquile del capoluogo siciliano, oggi sede della Rete Jasmine, promossa dall’ong Mediter Bruxelles nell’ambito del progetto Amina – Programme thématique Organisations de la société civile et autorités locales (Oscal), finanziato dall’Ue, puntava alla costituzione di una rete nel Mediterraneo a supporto della leadership femminile, che, attraverso formazione continua e scambio di buone prassi, favorisse l’accesso a posizioni di rilievo di giovani donne africane ed europee. Tre giorni di confronto e dibattiti a conclusione dei quali le co-fondatrici della Rete hanno sottoscritto, davanti ad autorità locali e internazionali, la Carta di intenti Jasmine, che ufficialmente definisce priorità ed emergenze, modalità di intervento e strategie di azione.

Le interviste rilasciate a margine dei lavori sono ora, a distanza di un anno, raccolte in un libro pubblicato in 5 lingue (italiano, spagnolo, inglese, francese e arabo). «È stato un lungo viaggio con un preciso punto di svolta nel 2006, quando, in Libano, si scoprì il ruolo insostituibile della componente femminile della società civile — racconta Victor Matteucci, presidente di Mediter, ong con oltre 60 partner delle due rive del Mediterraneo, ideatore del progetto Amina e tra i promotori della Rete Jasmine, da 20 anni in ruoli di responsabilità nella cooperazione internazionale nell’ambito delle dinamiche di genere e dei diritti umani delle popolazioni post conflitto —. A differenza degli uomini, ancora coinvolti negli strascichi della guerra civile e nel clima di conflitto con Israele, le donne sembravano eludere ogni contrasto, continuando silenziose il loro impegno in cooperative di sartoria, in piccole attività commerciali o nel reperimento di acqua e cibo: la loro ottica, disincantata e, nel contempo, lucida, era già proiettata nella ricostruzione».

Così, ad esempio, il senso pratico spinse alcune a riunirsi in stanzoni polverosi davanti a vecchie macchine per cucire, mentre lo spirito di iniziativa di altre a commerciare frutta, verdura e altri prodotti di prima necessità in piccole botteghe: «Lì presi atto dell’imprescindibile ruolo strategico che rivestivano» ricorda Matteucci, sottolineando il modello che, con basso profilo e molta dignità, stavano impostando secondo forme di cooperazione spontanea: «Dalla loro organizzazione sociale in strutture orizzontali emergeva una visione di rete istintivamente incline a processi condivisi e inclusivi — prosegue il presidente di Mediter — uno schema ordinato di bisogni, conoscenze, relazioni, iniziative, naturalmente inserito in un dinamico ciclo di opportunità, basato su scampoli di tempo, spazi e risorse, e alimentato dall’alternanza recupero- riciclo».

Tra le figure più carismatiche aderenti alla Rete Jasmine, la psicanalista, scrittrice e antropologa, Rita El Khayat: originaria di Rabat, è stata la prima donna nella storia del Marocco a rivolgersi, direttamente e pubblicamente, al sovrano Mohammed VI, allo scopo di contrastare il tentativo del Movimento islamista-reazionario di limitare la presenza e l’impegno delle donne nella società maghrebina. «Esiste uno squilibrio tra i popoli a nord e quelli a sud del Mediterraneo, come evidentemente è enorme la differenza di cittadinanza tra gli occidentali e gli altri popoli» afferma Rita El Khayat, sottolineando una discriminazione che si ripercuote a cascata in termini di giustizia sociale: «Migliaia di persone muoiono nel Mediterraneo, consapevoli di rischiare la vita: accettano un atroce compromesso, perché costretti da condizioni umanamente non dignitose nei loro Paesi. Questa situazione non è tollerabile».

El Khayat sottolinea il passaggio, difficile per una intellettuale donna, dalla presa di coscienza di questa lacerazione alla scelta di adoperarsi, in prima persona e apertamente, per abbattere i muri che delimitano gli spazi di autonomia e realizzazione delle donne. «La prima conquista è stata il riconoscimento del mio ruolo: le ricerche e gli studi di anni mi hanno portato ad un approccio trasversale ed oggi mi sento pronta a mettere la mia esperienza al servizio del prossimo, contribuendo a costituire un mondo più giusto». Un obiettivo, questo, raggiungibile, secondo El Khayat, attraverso un processo che faccia leva sulla trasformazione della condizione femminile in tutto il pianeta: «La rivoluzione nei rapporti di forza all’interno delle varie componenti sociali deve iniziare da un altro tipo di relazione tra esseri umani, uomini e donne, giovani e vecchi, minori e adulti, instaurando un nuovo equilibrio basato su un patto di solidarietà e parità».

Altra voce autorevole della Rete Jasmine, Enaam Suhail Al-Barrishi, direttrice della Jordan River Foundation (Jrf), racconta la sua esperienza alla guida, in qualità di General Manager, della Royal Health Awareness Society (Rhas), presieduta da Sua Maestà, la Regina Rania Al Abdullah: «Lavorando da otto anni in una delle più grandi organizzazioni della Giordania, ritengo che la cultura non basti a rendere le donne economicamente autosufficienti. Solo essere indipendenti dà la libertà di scegliere: in famiglia, sul lavoro e negli ambienti di vita. Perché le donne possano autonomamente scegliere il tipo di educazione o come curarsi, dobbiamo aiutarle ad acquisire più forza: una forza che le renda capaci di rifiutare ogni forma di violenza». Proprio quest’ultima, in Giordania, ha assunto i caratteri di un’emergenza, a causa dell’elevato numero di rifugiate irachene e siriane: «I traumi da loro subiti non si contano: fornire assistenza psicologica è una priorità assoluta e, per questo, abbiamo sviluppato diversi programmi ad hoc per le rifugiate» conclude Al-Barrishi, mostrandosi, tuttavia, fiduciosa, alla luce dei significativi passi degli ultimi anni: «La strada è ancora lunga, però, rimanendo nell’ambito dell’emancipazione femminile, la professione, il lavoro, l’impiego, non sono più tabù. Accettare che una donna contribuisse al sostegno e al bilancio del nucleo familiare era impensabile fino al cambiamento radicale di 15 anni fa».

«La mia storia personale è sintomatica della necessità di doversi impegnare per 40 anni nella carriera, in un contesto pieno di contraddizioni e conflittualità culturali e religiose — racconta la libanese, Samira Baghdadi, direttrice della Fondazione Culturale Safadi ed esperta di sviluppo locale —. L’inizio del mio impegno civile nel campo dell’educazione è coinciso con il periodo post bellico dello scontro civile in Libano: in quella fase ho dovuto fare i conti con tutti gli ostacoli di uno stato di guerra e, subito, ho rafforzato la convinzione che le donne sono leva e pilastro del benessere sociale».

Dal mondo arabo giunge un coro unanime nel sottolineare quanto l’assenza di una cultura della valutazione delle competenze agisca da freno all’emancipazione femminile, il che determina una partecipazione alla gestione del potere politico e alla guida delle imprese ancora molto timida e, per lo più, legata all’appartenenza ad un ceto sociale privilegiato. La sfida è certamente culturale, ma non solo, e, soprattutto, richiede il coinvolgimento di tutte le parti sociali, indipendentemente dal genere, dal ceto e dal paese di appartenenza.


(L’Osservatore Romano, 12 settembre 2020)

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