29 Aprile 2023
il manifesto

La sicurezza, la cura e la salute mentale

di Sarantis Thanopulos


La morte di Barbara Padovani, psichiatra, per mano di un paziente autore di ripetuti atti di violenza, ha riacceso le polemiche sulla sicurezza e le critiche nei confronti della riforma Basaglia, che, per inciso, con l’assassinio non c’entra nulla.

L’ossessione della sicurezza ha cambiato la qualità e il senso della nostra vita. L’esistenza votata alla sicurezza si deprime. Diventa paranoica per tenersi viva sul piano dell’eccitazione e dell’allerta, visto che non può esserlo su quello del desiderio, delle emozioni e dei sentimenti.

La ricerca della sicurezza ci ha ipnotizzati, nonostante l’evidenza che, oltre a rendere miserabile il nostro vivere, produce contrariamente a quello che ci prefiggiamo, molti più problemi di quanti risolve. Creiamo nuove, ingegnose modalità di adattamento a pericoli reali, potenziali o immaginari. Tuttavia, poiché l’adattarsi alla realtà piuttosto che conoscerla, esplorando le sue diverse possibilità e dimensioni, non ce la rende più vicina e accogliente, ma al contrario lontana e minacciosa, il risultato finale è l’acuirsi del nostro senso di precarietà e di incertezza.

La domanda di sicurezza non produce sicurezza, ma ulteriore domanda di sicurezza. È una delle grandi mistificazioni della nostra epoca, perché prende il posto della prevenzione e della manutenzione. Che non sono equivalenti della «messa in sicurezza». Il sentirsi al sicuro non lo creiamo con un assetto difensivo nei confronti del mondo, ma abitandolo con un senso di libertà che deriva da una intima, attenta relazione con esso, fondata sulla cura. Prendere cura di noi e degli altri, degli ambienti in cui viviamo, degli oggetti che usiamo o costruiamo, è una cosa complessa e di per sé appagante.

Si prevengono i danni delle alluvioni costruendo argini sulle rive del fiume o si evita il logorio del legno impregnandolo di olio che lo protegge dalla pioggia. Si riparano le scarpe risuolandole. Si potano gli alberi per aumentare la qualità del loro prodotto. Si scelgono con attenzione le parole di una dichiarazione d’amore o di una poesia perché esprimano nel miglior modo i sentimenti che li animano. Si sperimentano diverse possibilità espressive sul taccuino di un pittore o di un architetto o sulla tastiera di un pianoforte. Si prende la giusta misura della distanza per godere di un panorama o per fare un salto, o del tempo per coordinarsi nel ballo con il proprio partner. Si valutano, con l’aiuto della prudenza e della moderazione, le conseguenze dei propri gesti e ci si affida alla potenza intuitiva dell’immaginazione per indovinare passaggi che la più potente capacità di misurazione e osservazione non potrebbe inquadrare.

Perché queste modalità di costruire la nostra relazione con ciò che ci fa sentire vivi e dà significato alla nostra esistenza, la cui composizione variabile fa la cura, dovrebbero essere assenti dal campo della salute mentale e dalla prospettiva con cui lo guardano le istituzioni nel loro insieme? Cosa si può aspettare se il campo della sofferenza umana più destabilizzante, quella che più ci interroga sul senso della vita, è lasciata all’incuria?

La sofferenza psichica non è più comprimibile in modo massivo all’interno di recinzioni murarie, non solo perché ciò sarebbe una violenza insopportabile per la società democratica, ma anche perché il suo spazio si è esteso così tanto che invade diffusamente l’intera società e si interseca con il crescente disagio della collettività e della civiltà. L’area dell’intersezione è il luogo dove maggiormente si estrinseca la violenza anonima, la più distruttiva (dalla guerra in Ucraina, all’assassinio di Pisa). Bisogna riformare radicalmente il sistema della salute mentale, fondandolo sulla riforma Basaglia e sull’investimento forte della psicoterapia e del lavoro nella comunità. Usare i farmaci per controllare, silenziare il malessere, è istigazione alla violenza.


(il manifesto, “Verità nascoste”, 29 aprile 2023)

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