24 Gennaio 2023
la Repubblica

La solitudine della madre

di Claudia de Lillo


Camicie da notte aperte davanti, reggiseni per allattamento, coppette assorbilatte, mutande di rete monouso, assorbenti igienici post parto. Forse non tutti sanno che a volte gli ospedali consegnano alla gestante, in procinto di diventare puerpera, un elenco di articoli da portare con sé in una fantomatica ma indispensabile valigetta. La preparazione di tale bagaglio e del suo alieno contenuto è un rito obbligato, celebrato con trepidazione, inquietudine e, se si tratta della prima volta, totale incoscienza.

Esiste un’estetica della maternità, una pericolosa mistificazione che racconta il miracolo della nascita, la sublimazione della madre, creatura eroica e potentissima, incurante della sofferenza e della fatica, estatica e appagata al cospetto del proprio frutto acerbo. Tale narrazione sorvola, con signorilità e ipocrisia, sull’atroce dolore fisico, sullo sfinimento, sullo sconquasso emotivo, sulla paura, sulle lacrime, sui crampi, sulle perdite, sulla montata lattea, su un corpo lacerato e svuotato, sulla bruttezza delle mutande di rete monouso. Ci sono passate in tante ma dopo rimuovono o, per pudore, evitano di rivangare quel tunnel. Il personale ospedaliero conosce tutta questa storia alla perfezione ma sottostà a protocolli che, affinché la macchina possa funzionare, seguono linee dritte e illuminate, refrattarie ai buchi neri.

La notte tra il 7 e l’8 gennaio, nel reparto di Ginecologia dell’ospedale Pertini di Roma, una madre si è addormentata mentre allattava il suo neonato di tre giorni. Quando si è svegliata il bambino non c’era più. Era morto soffocato. Il padre ha riferito che la moglie era sfinita da un travaglio lunghissimo e aveva chiesto di poter riposare, affidando il piccolo al nido. Il personale glielo avrebbe negato. La magistratura sta indagando e l’autopsia farà chiarezza sulle cause del decesso. 

Non vogliamo addentrarci nella tragedia privata di una famiglia né tantomeno nell’iter giudiziario che ne seguirà. Tuttavia chiunque abbia partorito in ospedale ha conosciuto per un minuto, per un’ora o per un giorno, il senso di abbandono e inadeguatezza. Può succedere durante il parto, costrette in posizioni innaturali («Signora, spinga e basta»), nella fatica di allattare («Il bambino deve potersi attaccare al seno sempre, ogni volta che vuole»), nel desiderio di delegare («Eh no! Il pannolino lo deve cambiare la mamma!»), nel senso di colpa indotto («Ma come? Perché non vuole avere il bambino in camera con sé?»), nella proibizione di avere accanto l’altro genitore, come se non servisse.

Il parto è una delle esperienze più straordinarie e sconvolgenti che, come pochissime altre, coniuga meraviglia e terrore. I giorni immediatamente successivi sono i più difficili. Perché l’improvvisa responsabilità di una nuova vita è spaventosa, perché una neo madre, nonostante il mito crudele dell’istinto innato, è incompetente e impreparata, perché un figlio è per sempre e quell’avverbio è una minaccia, perché il corpo di una puerpera è fragile e sconosciuto anche a lei stessa, perché la depressione è un’onda nera che può ghermire di soppiatto, perché la fatica fisica e mentale è estenuante.

Una neo madre non andrebbe mai lasciata sola. Andrebbe seguita, rassicurata, accudita in modo che, a sua volta, possa imparare a fare lo stesso, piano piano, con il suo bambino. Prima dei fiori, dei fiocchi ricamati e della valigetta, la maternità richiede condivisione.

Perché solo la condivisione ci può salvare dall’abisso.


(la Repubblica, 24 gennaio 2023)

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