27 Settembre 2022
il manifesto

La temperatura politica della lingua. Intervista a Maria Rosa Cutrufelli

di Francesca Maffioli


Il prossimo ottobre uscirà la nuova edizione del dizionario italiano Treccani diretto da Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, in tre volumi: il Dizionario dell’Italiano Treccani (Parole da leggere), il Dizionario storico-etimologico (Parole da scoprire) e la Storia dell’italiano per immagini (Parole da vedere). Con la pubblicazione del nuovo dizionario, insieme all’aggiornamento che prevede ad esempio l’introduzione di neologismi, si saluta un altro importante e atteso cambiamento: sostantivi e aggettivi saranno sia nella forma femminile sia in quella maschile, e non più tra parentesi ma in ordine alfabetico.

Proprio un anno fa veniva pubblicato il primo Quaderno del «Centro di documentazione internazionale Alma Sabatini», intitolato Dove batte la lingua oggi (per Iacobelli editore; su queste pagine avevamo anticipato uno stralcio del saggio di Laura Fortinindr), in cui si ricordava come già nel 1987 Sabatini parlava di sessismo della lingua italiana. La scrittrice e giornalista Maria Rosa Cutrufelli, presidente del centro che ha sede alla Casa internazionale delle donne di Roma, risponde in merito a questo cambio di prospettiva che disegna in maniera più fedele ciò che a livello linguistico era già cambiato e continua a cambiare.

La prossima edizione del dizionario italiano Treccani sceglie di registrare le forme femminili dei nomi e degli aggettivi femminili insieme a quelli maschili, superando la prassi secondo cui il femminile risulta, ma solo in dipendenza dal maschile. Come vede questa scelta? Perché ancora tante critiche? 
Sono passati trentacinque anni da quando Alma Sabatini scrisse un libro famoso e ancor oggi utilissimo: Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana. Da allora la società è cambiata radicalmente, ma i mutamenti linguistici hanno tempi molto lunghi e nei dizionari «donna» è ancora sinonimo di «casalinga». Credo che dobbiamo essere grate (e grati) a Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, che hanno avuto il coraggio di adeguare il dizionario Treccani ai nuovi tempi. L’innovazione forse più interessante (almeno per me) consiste nel fatto che le forme femminili degli aggettivi e dei sostantivi non sono più messe fra parentesi, come semplici derivati dal maschile, ma hanno una pari dignità. Cioè vengono levate dalle parentesi e messe insieme al maschile, seguendo un ordine alfabetico. Per esempio troverete «Amica/amico» o, al contrario, «Direttore/direttrice». E naturalmente troverete anche i nomi professionali (nomina agentis) declinati al femminile, come «rettrice» o «avvocata» (che, sia detto per inciso, erano già in uso nel medioevo, ma che poi, nella «modernità» si erano persi: anche nella lingua ci sono corsi e ricorsi). Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, insomma, hanno cercato di rimettere le parole in sintonia con la realtà. Un’operazione coraggiosa, perché è assolutamente vero, come ebbe a dire Luisa Muraro, che «la lingua batte dove la politica duole». Gli attacchi subiti da Della Valle e Patota sono molto significativi, infatti, non di una resistenza a un cambiamento linguistico, ma a ciò che questo cambiamento registra. È come se i detrattori della nuova Treccani sperassero che, non nominando la nuova presenza femminile nella società, questa presenza possa sparire d’incanto. Questo rifiuto del cambiamento, oltretutto, si palesa in modo molto violento. Non «obietta» con garbo (e competenza) il giornalista Giovanni Sallusti quando scrive: «è la Treccani che diventa le Treccagne». La lingua, si sa, è uno strumento che serve a esprimere le nostre opinioni. Ma le opinioni cambiano e si possono cambiare, sostanzialmente o formalmente. Io non spero che Giovanni Sallusti cambi opinione, ma il modo di esprimerla, almeno questo sì, lo spero in nome di una comune civiltà. Si può discutere senza offendere. O no?

Nel 1991 la filosofa Luce Irigaray scriveva «Parlare non è mai neutro», spiegando come il falso universalismo promosso dai sostenitori del neutro maschile fosse da opporre al linguaggio sessuato, capace di nominare le soggettività. In che modo secondo lei la grammatica può essere guardata come il riflesso delle relazioni che abitano l’umano? 
A questo proposito, mi è capitato di citare più volte un libro molto illuminante: L’infinito singolare della semiologa Patrizia Violi. In questo libro Patrizia Violi si chiede se il riflesso della differenza sessuale nella lingua (come, per esempio, l’esistenza dei generi grammaticali) è un semplice «accidente» o rifletta un concreto bisogno espressivo dei parlanti. Subito dopo, osserva che il linguaggio è il luogo in cui la soggettività si costituisce e prende forma, dato che il soggetto si può esprimere solo attraverso il linguaggio e il linguaggio, a sua volta, non può costituirsi senza un soggetto che lo fa esistere. Il problema è che il linguaggio esprime anche le posizioni di dominio nella comunità dei parlanti, e dunque il linguaggio, nella nostra cultura, per tradizione registra la voce di un solo soggetto che parla per tutti, azzerando le differenze: un soggetto che non è neutro se non in apparenza, ma che in realtà è maschile. Ma chi non viene «nominato» non esiste e il diritto all’esistenza, a essere «visibile» anche attraverso la parola, è ciò che chiedono tutti i soggetti finora esclusi, per l’appunto, dalla «nominazione»: le donne, come sempre, ma anche le persone non binarie, il mondo lgbtq e così via.

Uno degli argomenti feticcio di chi si scaglia contro l’utilizzo di medica, avvocata, ministra o ingegnera continua a essere il trito «suona male». Secondo lei il fatto che queste parole vengano registrate in un dizionario può aiutarne a diffonderne l’uso? Quanto la norma linguistica in alleanza alla lingua d’uso può concorrere a un cambiamento? 
Il «sistema della lingua» possiede una grande forza d’inerzia e i mutamenti linguistici, come ho detto, hanno tempi molto lunghi e sono tutt’altro che facili da indirizzare nel verso auspicato. Ma, nel caso della nuova Treccani, non c’è un incitamento ad andare in una direzione invece che in un’altra: piuttosto, si registra un cambiamento già avvenuto nei fatti. E questo facilita la comprensione e agevola e legittima quello che alcuni linguisti chiamano «il sentimento dei parlanti».

Il «Centro di documentazione internazionale Alma Sabatini», promuove da anni attività di studio e di ricerca inerenti all’uso non sessista della lingua. Le cose sono cambiate? 
Dopo trentacinque anni, direi che è ancora valido quello che Alma Sabatini scrisse a chiusura delle Raccomandazioni: «Quello che ricerchiamo è una riforma nel profondo dei nostri simbolismi politici, estetici, etici, che si riflettono in quella apparente superficie o parte emergente dell’iceberg che è la lingua». Tutte le riforme sono difficili, ma questa credo che sia la più difficile di tutte. Però anche la lingua sta cambiando, è inevitabile, per adeguarsi ai bisogni dei nuovi soggetti. Nel secondo Quaderno del Centro, in uscita a breve, troverete un dibattito molto interessante e significativo fra ragazzi e ragazze. Leggendo le loro opinioni (e le loro richieste) potrete rendervi conto facilmente di quanto questo argomento li appassioni e di come non sia più possibile far finta che il problema non esista.

Nella raccolta di saggi «L’invenzione delle personagge» (Iacobelli editore, 2016), lei ha partecipato con un suo intervento a questo volume (nato all’interno della Società italiana delle Letterate, ndr) che per scelta delle curatrici Roberta Mazzanti, Silvia Neonato e Bia Sarasini declinava nel titolo il sostantivo «personaggio» al femminile plurale. In letteratura quali differenze racconta, rispetto ai personaggi, la categoria critica delle personagge? 
Questo è un tema difficile da affrontare in poche righe. Qui posso soltanto ribadire quello che scrissi in quella raccolta di saggi molto innovativa (e anch’essa molto coraggiosa, perché il dibattito attorno a questo tema è ancora alle prime battute). Scrissi che, per narrare, bisogna entrare nel cuore dei personaggi messi in scena, maschi o femmine che siano. 
Per farlo, è necessario un profondo processo di empatia. Ma l’empatia, per quanto grande, non potrà mai cancellare l’ombra che il corpo di chi scrive getta sulla pagina: un’impronta originaria che testimonia una differenza originaria. Più semplicemente: l’esperienza del nostro corpo vivente si rifletterà sempre, in qualche modo, in maniera diretta o indiretta, sulla pagina. Ma questo riflesso talvolta non è facile da cogliere. Né da chi scrive né da chi legge.


(il manifesto, 27 settembre 2022)

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