27 Maggio 2023
il manifesto

Laura Citarella, la variabile del gruppo

di Andrea Inzerillo e Mirta Ursula Gariboldi


L’ultimo film di Laura Citarella, Trenque Lauquen, è stato presentato in concorso nella sezione Orizzonti del festival di Venezia 2022 e da allora ha vinto premi in tutto il mondo. Da inizio maggio nelle sale francesi, film del mese per i Cahiers du Cinéma, si prepara all’uscita in Germania. A Palermo il Sicilia Queer Filmfest dedica la prima retrospettiva integrale alla regista e produttrice argentina, talentuosa esponente del gruppo El Pampero Cine. Le abbiamo chiesto di raccontarci la sua idea di cinema per spiegare la dimensione collettiva del suo lavoro ma anche per entrare maggiormente in quelli che sono i temi a lei più cari: l’indipendenza, il femminismo, il mistero. «La prima volta che ho incontrato Mariano Llinás, che era mio professore all’università, mi ha colpito il suo approccio casereccio e sfrenato di pensare alla produzione. Io avevo conosciuto l’industria e lavorato per diversi film e progetti, e mi sentivo sempre un po’ distante dallo schema lavorativo padronale. Mariano aveva creato una forma di lavoro che implicava anche l’amicizia. I film del Pampero Cine devono la loro esistenza al modo in cui vengono prodotti, che è quasi l’unica maniera che conosciamo di fare cinema. Il grado di avventura e sfrontatezza, lo schema rizomatico per cui tutto si espande e si apre da ogni lato non sarebbe possibile se non li producessimo con questa idea di “compagnia”, di gruppo, che ci caratterizza. Se si parte dall’idea che gli oggetti cinematografici non sono merci, se non li si considera come qualcosa da cui trarre profitto, vengono meno moltissimi obblighi e faccende commerciali; e quando non sei in debito con nessuno puoi lavorare con gli attori che vuoi e far durare i film quanto devono durare. Dal punto di vista economico il movimento generato da film di questo tipo è molto ridotto; quindi, per sopravvivere, si cercano altre possibilità, come scrivere sceneggiature per l’industria o tenere corsi all’università o workshop. Ma questa indipendenza e il tentativo di fare film così non sono mai pensati come una tappa verso qualcos’altro – come avviene nella maggior parte dei casi all’interno dell’industria. Il percorso è esso stesso la ricerca di una forma di produzione. Per ogni film bisogna pensare a un nuovo modo di produzione, a una nuova forma di messa in scena – perché la produzione influenzerà ovviamente le possibilità di messa in scena – e questo genererà immagini che saranno anch’esse nuove. Questo spazio di sperimentazione si basa sull’idea che non c’è un punto al quale arrivare, come presuppone l’idea di carriera nel mondo del cinema, che a volte è un po’ frivolo. L’idea è quella di reinventarsi quotidianamente, di costruire formule che non si ripetano da un film all’altro. Col desiderio di perdersi, senza orizzonti, e di trovare i film lungo la strada.

In che modo è nato, e come si è strutturato, il vostro rapporto con il cinema?

Historias extraordinarias [Mariano Llinás, 2008] è stata la madre di tutte le battaglie. Scoprimmo che il cinema poteva diventare un esercizio costante e incessante e fondersi continuamente con la nostra vita: i viaggi cessavano di essere solo viaggi perché portavano sempre a dei film; il piano di lavoro e il trascorrere del tempo con gli amici diventavano improvvisamente sincronizzati. Il tempo comincia ad assumere un valore diverso e i film si fanno mentre accadono molte altre cose (anche mentre si impara a farli). Per quel film abbiamo viaggiato per due mesi facendo sopralluoghi in tutta la provincia di Buenos Aires, conoscendone tutti gli angoli e pensando il film tutti insieme. Historias extraordinarias è stato la conferma del quartetto del Pampero Cine, ovvero Mariano Llinás, Alejo Moguillansky, Agustín Mendilaharzu e io: ognuno a suo modo e secondo il suo mestiere porta questa capacità e questo modo di fare cinema il più lontano possibile. Da quel momento a oggi la reinvenzione è costante, è un lavoro quotidiano in cui si ripensa sé stessi, il cinema e le sue modalità di produzione. È una forma di produzione talmente mediata dalla propria vita che vita e film non sono mai separati. Con Ostende, il mio primo lungometraggio da regista, mi sono resa conto che all’interno di questo stesso schema potevo anche dirigere dei film: non è che chi si occupa di produzione è condannato a fare esclusivamente produzione, direi che anzi è il contrario. Mi sembra che questo gioco tra i due ruoli mi abbia permesso di trovare la mia strada come regista all’interno di questa struttura. Tutti noi del Pampero Cine siamo produttori proprio per questo motivo. Non mi sento meno parte di La flor [Mariano Llinás, 2018] perché ne sono la produttrice: ovviamente ho un rapporto molto più intenso con Trenque Lauquen, perché dirigere un film comporta sempre una grande solitudine e sofferenza personale, ma al di là di questo non percepisco gli altri film del Pampero Cine come meno miei, perché l’esperienza cinematografica ha a che vedere con il fare i film, indipendentemente dal tipo di lavoro che si svolge.

In “Ostende” si trovano già molti elementi che torneranno in “Trenque Lauquen”: al di là di Laura Paredes, che è protagonista di entrambi i film, c’è una stessa capacità di creare suspense con molto poco; la ricerca di libertà e la storia di emancipazione di una donna che mette in discussione le relazioni tra i sessi; il tuo interesse per il cinema di genere.

Sì, in Trenque Lauquen e in Ostende c’è qualcosa che ha a che fare con l’intensità della finzione e con il modo in cui questa prevale sulle relazioni ordinarie. In entrambi i casi le protagoniste mettono in crisi la loro vita quotidiana attraverso le avventure e questo le porta al loro massimo splendore, alla loro massima capacità di piacere e di rapporto con la realtà. In Ostende la protagonista ha un fidanzato convenzionale, una relazione eterosessuale ordinaria senza molti alti e bassi, e in Trenque Lauquen il personaggio è abbastanza simile, solo in un’età diversa. In Ostende c’è l’idea di vivere un’altra vita, esperienze di altro tipo, di considerare la suspense o la finzione come stile di vita e il mondo come spazio della finzione. In Trenque Lauquen tutto questo viene moltiplicato e il film si chiede direttamente quante vite si possano vivere in una sola vita.

“Las poetas visitan a Juana Bignozzi” del 2019, co-diretto con Mercedes Halfon, è forse il tuo film più documentaristico, ma anche quello dove si vede meglio la macchina del cinema, come se il cinema stesso fosse il suo vero tema. Mi fa pensare a “Effetto notte” di François Truffaut: l’energia di un gruppo di persone che fanno cinema, i movimenti tuoi e della tua squadra…

Sì, l’aspetto e la forza dell’essere un gruppo di donne è molto interessante. Juana Bignozzi è morta il giorno in cui Mercedes Halfon è venuta a intervistare me e Verónica Llinás per la prima di La mujer de los perros. Quel giorno mi ha raccontato che era morta una poetessa molto amata dai giovani poeti, un po’ come noi “giovani” cineasti amavamo Hugo Santiago. Due anni dopo mi chiama dicendomi che ne ha ereditato l’opera, che stavano svuotando casa sua e che le sarebbe piaciuto filmare il tutto. E mentre documentavo questa operazione cominciai a capire che stava nascendo un film. Alla fine è sempre una finzione con la scusa del ritratto, o un ritratto con la scusa della finzione. Il film è nato in questo clima di scambio tra donne, e l’incontro tra le cineaste, Mercedes e Juana ha creato un’esperienza autenticamente collettiva, nella quale tutte avevamo messo da parte il timore di trasformarci a vicenda. Durante le riprese del film (e di Trenque Lauquen, perché lavoravo a entrambi contemporaneamente) sono rimasta incinta ed è nata mia figlia Lucía. Ho continuato a girare con lei neonata: la mettevamo per terra e la lasciavamo lì mentre giravamo. La sua presenza creava un tempo differente, e tutte noi ci abbandonavamo a questo tempo. Erano riprese molto dialogate: parlavamo di femminismo e di politica, discutevamo a lungo, e finivamo per filmare pochissimo. Questo flusso faceva sì che ci perdessimo un po’ e che per un momento smettesse di avere importanza di chi fossero le idee. L’importante era rendere visibili le cose e vederle tra tutte noi, non declamare concetti per metterci in mostra o per vincere una discussione. Credo che questa dimensione caratterizzi il film, nel quale appare una zona di ambiguità molto interessante: qualcosa della nostra energia e di questo lavoro tra donne. Sento che se in queste conversazioni avessero partecipato degli uomini la cosa avrebbe potuto essere diversa.

C’è un rapporto diretto tra “Las poetas” e “Trenque Lauquen”: in entrambi compare la dimensione dell’indagine, che è una e più d’una contemporaneamente, perché si tratta di provare a scoprire il mistero di una o più persone. Le domande finiscono allora per trasformarsi costantemente: da «Come si filma una poetessa?» a «Come si filma la poesia?», e quindi: «Si può filmare la poesia?»; «Cosa si può filmare, in generale?»; «Qual è il limite del cinema?».

Quando abbiamo trovato nella libreria di Juana Bignozzi il libro di Aleksandra Kollontaj Amore e rivoluzione: idee di una comunista sessualmente emancipata, per me è stata una rivelazione. La sequenza del libro di Kollontaj è esattamente la stessa nei due film: la voce off di Laura Paredes [in Trenque Lauquen] e quella di Las poetas sono praticamente uguali, ma il senso che lo stesso frammento ha in ognuno dei due film è completamente diverso. Quello che mi sembrava più interessante era l’idea di gruppo in senso politico, qualcosa di totalmente familiare al movimento femminista: il dire «i miei successi non sono miei, ma nostri». La conclusione che si trae alla fine di Las poetas è che l’opera di Juana non è di qualcuno, ma è del mondo e serve al mondo, perché serve per la vita. Come dice Juana, serve per prendere il Palazzo d’Inverno, serve per innamorarsi, per l’amicizia. Allo stesso modo, nel cinema ciò che più conta è l’esperienza comune. In Trenque Lauquen il fatto che i personaggi lavorino insieme, si raccontino storie e condividano avventure fa sì che nasca l’amore, la trasformazione, l’epica e l’avventura, come se nella possibilità di narrare o di avventurarsi comparisse un triangolo amoroso tra la vita, i film e i rapporti tra le persone.

Per il critico spagnolo Carlos Losilla “Trenque Lauquen” è una sorta di remake di “L’avventura” di Antonioni, ad altri potrebbe sembrare una specie di “Twin Peaks” argentino.

Mi azzarderei a dire che è un film sul mistero, anche se potrei cambiare idea. È senza dubbio il mio film più personale: l’ho girato nel paese della mia famiglia, ci recita mio marito, io appaio incinta, compare mia figlia, mio fratello suona il pianoforte. A un certo punto si vede mia nonna. Volevo includere aspetti della mia biografia senza mettere necessariamente me stessa al centro. La cultura autobiografica dell’io che prevale negli ultimi anni e occupa gran parte della scena cinematografica con film d’archivio di famiglia e diari personali mi sembra molto conformista. Trenque Lauquen difende l’idea di diluire il biografico in un racconto: è il film più personale che ho realizzato eppure è al contempo la macchina narrativa più importante alla quale ho lavorato come regista.

Lo si potrebbe anche vedere come un film che sostiene un’altra idea di gravidanza, pensata come un’esperienza catalizzatrice, più che fisica, che modifica la percezione del mondo e dà spazio alla dimensione del mistero.

C’è chiaramente qualcosa in questo film, che non si tematizza e neanche si nomina, ma che è presente. Il film stesso è mutante, i generi o i misteri sono in continua trasformazione, e non c’è niente di più mutante della maternità. Ci sono continui riferimenti anche se la maternità non diventa mai un tema: in questo film essere incinta è una specie di costume di scena, qualcosa che accade alle donne mentre fanno altre cose e non la loro condizione essenziale, quale si è soliti attribuire alle donne quando sono incinte. Credo che l’incontro della maternità con una certa animalità e con un po’ di follia sia uno dei pochi concetti che il film potrebbe stabilire intorno all’idea di essere madre. Tutto questo è certamente il frutto degli stimoli che avevo in quel momento, delle molte letture che mi spingevano a interrogarmi sul rapporto tra cinema e femminismo. Finito il film mi sembra di poter dire, provvisoriamente, che cinema e femminismo debbano pensarsi reciprocamente a partire da figure di finzione e di struttura, più che dai temi. Ma non c’è nulla di definitivo: quel che mi affascina del femminismo è proprio che si muove in continuazione e non è possibile acciuffarlo. Il film fa la stessa cosa: i misteri si muovono così tanto che non si riesce a coglierli. Per me il femminismo è un modo di comportarsi, un modo di pensare, è una forma nella quale mi sento a mio agio, nella quale posso cambiare idea, in cui posso mitigare le mie posizioni, in cui non ho bisogno di chiudere la mia mente perché dare un nome alle cose significa limitarle, e il femminismo è di per sé una forma di illimitatezza, di inclusione, di diversità.

“Trenque Lauquen” mi sembra aver ereditato molto bene l’ultima ondata di femminismo che dall’Argentina si è diffusa in tutto il mondo.

Il film mostra il modo di nominare e intendere il mondo che hanno due uomini, e poi quello alternativo, assai più morbido, misterioso e ambiguo di risolvere i problemi che hanno le donne. Un modo diverso di guardare al conflitto che propone una possibilità del mondo. D’altra parte sono presenti anche forme d’amore meno precise: il trio che si ritrova a vivere insieme con una creatura in soffitta configura una possibilità diversa di pensare all’amore, legata proprio a quanto dice Kollontaj sull’opposizione tra amore e lavoro. E tuttavia quel che più mi interessa ha a che fare con la logica del collettivo, del plurale, che si traduce nel modo di fare cinema e nel modo in cui penso che le strutture di potere possano essere smantellate. In una struttura industriale in cui le cose sono costruite in senso verticale, le differenze di classe e di genere si intensificano. Nell’industria c’è molta disuguaglianza perché è verticistica e incentrata sugli interessi dei capi: qualcuno ci rimette sempre, e se non è una donna è qualcuno di una classe inferiore, uno che non è bianco o che appartiene a un’altra minoranza. L’apparizione di Kollontaj nel film flirta con il femminismo ma introduce un problema meno trattato: perché non entriamo nel femminismo a partire dalle strutture, dalle forme di lavoro, dal parlare al plurale? Il film lavora con molti elementi con cui il femminismo può essere pensato, e credo che una persona che vede Trenque Lauquen possa ritrovarsi a riflettere su questioni femministe quasi senza rendersene conto, perché il film non vuole indottrinare, spiegare o essere pedagogico. È così che il femminismo opera e può davvero trasformare la realtà.


(Il manifesto – Alias , 27 maggio 2023)

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