30 Settembre 2023
la Repubblica

Le donne senza villaggio

di Maura Gancitano


«Questo paese è pieno di donne che impazziscono e nessuno se ne accorge» scriveva Doris Lessing nel Taccuino doro nel 1962, raccontando forse per la prima volta nella storia della letteratura la condizione delle donne infelici e sfiduciate, schiacciate da ruoli di madre e moglie e piene di sensi di colpa. Si trattava di donne che Lessing aveva davvero incontrato mentre faceva campagna elettorale in giro per Londra, e che fino a quel momento erano rimaste invisibili anche ai suoi occhi. La politica non si occupava di loro, e ciascuna rimaneva nel silenzio della propria casa senza poter prendere parola, sentirsi rappresentata, riconoscere che i propri problemi personali erano problemi politici, Erano donne impazzite «malgrado il marito e i figli, o forse per colpa loro», secondo la scrittrice. Questa condizione di stanchezza cronica, depressione e insoddisfazione avrebbe trovato poi conferma in studi e inchieste nei decenni successivi.

Poco è cambiato da quei primi anni sessanta, perché ancora oggi diventare madre significa troppo spesso ritrovarsi sola. Se hai la fortuna di avere una rete intorno sei fortunata, ma a passare giornate infinite con un neonato pieno di esigenze rimarrai comunque tu, spesso senza sapere come comportarti. Eppure quella stanchezza fisica e psicologica sembra ancora una questione privata, che ognuna cerca di risolvere secondo le proprie possibilità.

Al contrario, si tratta di una questione pubblica e non di un fatto naturale. Se un antico proverbio africano recita che «Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio», quello che accade nella società contemporanea è che per crescere un bambino finisce col volerci sempre solo la madre, perché così sembra indicare la natura. E se quella madre intende tornare al lavoro, dovrà fare i conti con un carico mentale senza fine e con una stanchezza che a un certo punto le sembrerà parte integrante della propria identità.

Se la questione esiste, e se deriva dall’organizzazione sociale e non dalla natura, come può essere risolta? Innanzitutto, facendo emergere la vera questione, cioè la condizione di isolamento e carico in cui le madri si trovano, e mettendo da parte l’idea che i ruoli di genere diano intoccabili. Se davvero ci interessa uscire dall’inverno demografico e permettere alle coppie che lo desiderano di avere figli, è necessario toccare gli stereotipi che ancora determinano i ruoli all’interno delle famiglie. Servono politiche in grado di cambiare tutto un sistema, a cominciare da un cambiamento di paradigma: non più l’idea che la vita dei figli, a partire dai primi mesi di vita, sia quasi del tutto a carico delle madri, ma fare in modo che gli aiuti alle famiglie siano continui, massicci, capillari e accessibili.

Per questa ragione, l’idea di una assistente materna che il governo ha intenzione di inserire nella Nadef 2023, e che sembra calcata sul modello di alcuni paesi nordici, ha lo scopo di curare il sintomo e non la causa. Innanzitutto, già dal nome ha lo scopo di assistere unicamente la madre, senza toccare le altre figure familiari. Il suo compito sarebbe quello di rispondere al telefono o in videocall e andare qualche volta a casa della puerpera nei primi sei mesi di vita del figlio. Questo, però, oltre a mettere in discussione l’importanza di altre figure professionali che già esistono, che hanno competenze specifiche e che non sono ancora presenti in modo uniforme sul territorio, non sembra davvero una soluzione a quel senso di solitudine che tante madri sperimentano.

Per risolverlo, infatti, non basta una singola iniziativa politica, ma serve innanzitutto una descrizione della condizione delle madri il più possibile libera da pregiudizi e ideologie. Le piccole aggiunte non cambiano un sistema, specie se i ruoli di genere rimangono fissi e vengono anzi difesi come naturali, in particolare il ruolo del padre, che ha ancora una posizione di contorno in un nage familiare in cui sarebbe invece essenziale non come “aiuto” alla madre, ma come genitore responsabile e in grado di prendersi carico del lavoro di cura.

Non basta quindi una figura professionale in più, laddove manca del tutto il villaggio, cioè una comunità che non faccia sentire sole le madri, che non le schiacci su quell’unico ruolo, che renda sereno il periodo del puerperio e accompagni verso una ripresa dell’attività lavorativa.

Perché questo smetta di essere un paese pieno di donne che impazziscono, mentre nessuno se ne accorge.


(la Repubblica, 30 settembre 2023)

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