di Sara Pero
SE IN AMORE vince chi fugge, in chirurgia vince chi riesce a instaurare un dialogo con il proprio paziente e a fare squadra con i colleghi. Una prerogativa maggiormente femminile, almeno a detta di chi è stato sotto i bisturi. A sostenerlo uno studio, condotto sulla provincia più popolosa del Canada, l’Ontario, e pubblicato sul British Medical Journal, che analizza i risultati post-operatori differenziandoli in base al sesso del medico. In sala operatoria il chirurgo è donna, nella fase della ripresa i pazienti se la caverebbe meglio.
Risultati. La ricerca, ricordano gli scienziati, non aveva come obiettivo di stabilire se in sala operatoria siano più bravi gli uomini o le donne, ma di seguire tutto l’iter che va dalla pre ospedalizzazione fino alle dimissioni. Dai dati è emerso che i pazienti di chirurghi femminili avevano meno probabilità di morire o di avere complicanze entro 30 giorni dall’intervento rispetto a quelli di chirurghi maschi. Differenza di genere? Quando si tratta di attenersi alle linee guida nel trattamento dei pazienti e al modo di approcciarsi a loro, sì: le donne col camice tendono a creare un dialogo maggiore con il proprio paziente, avendo inoltre un quadro clinico più completo.
“Se davvero crediamo che le differenze riscontrate tra i chirurghi in base al sesso di appartenenza siano vere, allora dobbiamo indagare maggiormente sui fattori alla base di queste differenze – sostiene Raj Satkunasivam, autore dello studio e assistente universitario di urologia presso lo Houston Methodist Hospital -. Una volta capiti, potremmo potenzialmente applicarli per addestrare meglio i chirurghi e inserire queste qualità in tutti loro per migliorare i risultati”. Il sesso, infatti, non dovrebbe essere un fattore decisionale del paziente per l’intervento chirurgico: “Si dovrebbe scegliere un chirurgo basandosi sul rapporto che si ha con lui o lei e su cosa consiglia il medico di famiglia”.
Studio. Condotto su un campione di oltre 104mila persone, lo studio si basa su un’analisi retrospettiva che va dal 2007 al 2015. Il campione di studio comprende pazienti che hanno subito in questo arco di tempo uno dei 25 interventi chirurgici (ad esempio appendicectomia, colecistectomia, resezione del colon o del fegato, craniotomia per tumore al cervello, sostituzione totale dell’anca, tiroidectomia totale, bypass coronarico o gastrico, riduzione del seno) da medici dell’uno o dell’altro sesso. La coorte intervistata è stata suddivisa prendendo in cosiderazione numerosi parametri per evitare eventuali bias: età, sesso, comorbidità del paziente, età e sesso del chirurgo, ospedale in cui è stato svolto l’intervento.
Altri studi. Nello studio, i ricercatori hanno confrontato un campione di pazienti operato da 774 donne e 2540 uomini e ora ricerche di questo tipo saranno ripetuti e indagati ancora più approfonditamente. Inoltre, non è la prima volta che si arriva a questa conlusione: un altro studio proveniente dalla Harvard School of Public Health pubblicato quest’anno aveva dimostrato come questa associazione riguardasse anche il caso dei medici internisti e l’attribuzione dei risultati, ance questa volta, era imputata alla capacità della dottoressa di comunicare e di impegnarsi con i propri pazienti, oltre alla loro capacità di collaborare con i colleghi e aderire alle linee guida inerenti il trattamento dei pazienti.
(Repubblica, 12 ottobre 2017)