2 Maggio 2020
The Guardian

Le leader riescono a gestire meglio la crisi del coronavirus?

di Jon Henley ed Eleanor Ainge Roy


Il 1° aprile, Silveria Jacobs, prima ministra di Sint Maarten, si è rivolta alle 41.500 persone della sua nazione. I casi di coronavirus erano in aumento e lei sapeva che la sua piccola isola, che accoglie 500.000 turisti all’anno, era a rischio: aveva solo due letti in terapia intensiva.
Jacobs non voleva imporre un blocco rigoroso, ma voleva che fosse osservato il distanziamento fisico. Quindi lo spiegò con queste parole: «Semplicemente: smettere di muoversi» (Simply. Stop. Moving). «Se in casa non hai il pane che ti piace, mangia i cracker. Mangia cereali. Mangia l’avena. Mangia… sardine».
La premier caraibica, 51 anni, potrebbe non avere il profilo di Angela Merkel o Jacinta Ardern, ma il suo messaggio schietto ha mostrato un’azione ferma e una comunicazione efficace – e ha mostrato il lavoro ben fatto di un’altra leader.
Dalla Germania alla Nuova Zelanda, dalla Danimarca a Taiwan, le donne hanno gestito la crisi del coronavirus con aplomb. Anche molti paesi con leader maschili – Vietnam, Repubblica Ceca, Grecia, Australia – hanno fatto bene. Ma pochi paesi governati da donne hanno fatto male.
Jacinta Ardern, 39 anni, premier della Nuova Zelanda, ha tenuto per mano i cittadini durante il lockdown, trasmettendo messaggi empatici dal suo divano, «stai in casa, salva vite umane» (Stay home. Save lives) e comunicando quotidianamente attraverso conferenze stampa non combattive e video intimi su Facebook, il suo mezzo preferito.
La sua insistenza sul salvare vite umane e il suo approccio principalmente basato sulla gentilezza – nell’esortare i neozelandesi a prendersi cura dei loro vicini, dei vulnerabili, a fare sacrifici per un bene più grande – le hanno fatto conquistare molti fan, e la sua enfasi sulla responsabilità condivisa ha unito la nazione.
Scegliendo la via della «fermezza e rapidità» (go hard and go early), Jacinta Ardern ha imposto una quarantena di 14 giorni a chiunque entrasse nel paese il 14 marzo e ha messo in atto un rigoroso blocco due settimane dopo, quando meno di 150 persone erano state contagiate e nessuna era morta. La Nuova Zelanda ha registrato solo 18 morti; la fiducia dei cittadini nel governo di Jacinta Ardern è superiore all’80%.

In Germania, Angela Merkel è stata acclamata per interventi pubblici diretti e insolitamente personali, quando avvertiva che fino al 70% delle persone avrebbe contratto il virus – la «più grande sfida» del paese dal 1945 – e piangeva ogni morte come quella di «un padre o un nonno, una madre o una nonna, un partner… ».
Grazie ai test fatti in modo esteso fin dall’inizio, al numero abbondante di letti di terapia intensiva e agli interventi diretti e ricorrenti della cancelliera per sottolineare che il Covid-19 è «serio – quindi prendetelo sul serio», la Germania ha finora registrato meno di 5.000 decessi, una cifra molto inferiore rispetto alla maggior parte Paesi dell’UE.
Con un dottorato in chimica quantistica, le spiegazioni chiare e tranquille di Angela Merkel hanno contribuito a far salire l’approvazione pubblica della gestione della crisi da parte della cancelliera, già al quarto mandato, sopra al 70%. Una sua clip che spiega le ragioni scientifiche alla base della strategia di uscita dal lockdown è stata condivisa migliaia di volte online.

Nella vicina Danimarca, la prima ministra Mette Frederiksen ha agito in modo altrettanto deciso, chiudendo i confini del paese scandinavo già dal 13 marzo e alcuni giorni dopo tutti gli asili, le scuole e le università e vietando riunioni di oltre 10 persone. Questa decisione sembra aver risparmiato alla Danimarca il peggio della pandemia, con meno di 8.000 casi confermati e 370 morti. I discorsi senza peli sulla lingua e le chiare istruzioni alla nazione di Mette Frederiksen sono stati ampiamente elogiati.

È riuscita persino a mostrare senso di umorismo, pubblicando su Facebook un video di sé stessa mentre lava i piatti cantando insieme alle popstar danesi degli anni ’80 Dodo e Dodos, durante il lockdown settimanale della TV nazionale. La prima ministra più giovane del Paese scandinavo, che ha visto raddoppiare il favore fino a superare l’80%, ha ora iniziato ad allentare il blocco.

La presidente di Taiwan Tsai Ing-wen ha risposto altrettanto velocemente, attivando la centrale di comando dell’epidemia all’inizio di gennaio e introducendo restrizioni di viaggio e misure di quarantena. Sono state implementate misure di igiene pubblica di massa, compresa la disinfezione delle aree pubbliche e degli edifici. Complessivamente, Taiwan ha adottato 124 misure di controllo e di contenimento settimanali, rendendo inutile un blocco totale. Ha riportato solo sei morti e ora sta inviando milioni di mascherine alle parti più colpite degli Stati Uniti e dell’Europa. Lo stile caloroso e autorevole di Tsai Ing-wen ha avuto il plauso anche degli oppositori politici.

La Norvegia, con 7.200 casi e 182 morti, questa settimana ha iniziato ad allentare le restrizioni riaprendo gli asili. La prima ministra Erna Solberg ha detto alla CNN che la sua intenzione è di «lasciare che gli scienziati prendano le grandi decisioni mediche», aggiungendo che ritiene che l’isolamento precoce del suo paese e l’accurato programma di test siano stati fondamentali.
Seguendo l’esempio di Frederiksen, Erna Solberg ha anche fatto il passo insolito di rivolgersi direttamente ai bambini del paese, raccontando loro in due conferenze stampa – da cui sono stati banditi giornalisti adulti – che era normale essere un po’ spaventati e che anche a lei mancava la possibilità di abbracciare i suoi amici.

L’Islanda, sotto la guida della prima ministra Katrín Jakobsdóttir, ha offerto test gratuiti a tutti i cittadini, non solo a quelli con sintomi, e ha registrato 1.800 casi e 10 decessi. Circa il 12% della popolazione ha accettato l’offerta e un sistema di tracciabilità esauriente ha fatto sì che il paese non abbia dovuto chiudere le scuole.

Anche la prima ministra finlandese Sanna Marin ha deciso di imporre un blocco rigoroso, compreso il divieto di tutti i viaggi non essenziali dentro e fuori la regione di Helsinki. Ciò ha aiutato il suo paese a contenere la diffusione del virus a soli 4.000 casi e 140 morti, un bilancio, per milione di abitanti, di 10 volte inferiore a quello della vicina Svezia.

Le donne che hanno operato in modo eccelso nella crisi del Covid-19 non sono solo capi di governo. Jeong Eun-kyeong, l’inarrestabile capa del centro per il controllo delle malattie della Corea del Sud, è diventata un’icona nazionale dopo aver supervisionato la strategia di «test, tracciamento, contenimento» (test, trace, contain), che ha reso il Paese il modello mondiale nella lotta al coronavirus, con infezioni quotidiane a una sola cifra e un bilancio delle vittime inferiore a 250.

Jeong Eun-kyeong, una ex medica di campagna soprannominata “la miglior cacciatrice di virus al mondo”, ha tenuto conferenze stampa quotidiane senza fronzoli, inserendo anche la dimostrazione del modo ideale per tossire. Mentre queste conferenze stampa hanno guadagnato elogi, la sua etica del lavoro ha suscitato preoccupazione per la sua salute, infatti lasciava il bunker destinato alle operazioni di emergenza solo per rapide visite al camion dove distribuivano il cibo.

Quali che siano le conclusioni che possiamo trarre dalle performance di queste leader durante la pandemia, gli esperti avvertono che, mentre le donne «sono rappresentate in modo sorprendentemente alto, sproporzionato» tra i paesi che gestiscono bene la crisi, dividere uomini e donne, capi di stato e di governo, in categorie omogenee non è utile.

Possono esserci in gioco fattori complicati. Kathleen Gerson, professoressa di sociologia alla New York University, osserva, ad esempio, che le donne hanno maggiori probabilità di essere elette in «una cultura politica in cui c’è un relativo sostegno e fiducia nel governo e che non fa distinzioni nette tra donne e uomini (non ritiene le donne inferiori agli uomini n.d.t). Quindi, come donna, hai già un vantaggio».

Inoltre, potrebbe essere più difficile per gli uomini sfuggire al «modo in cui ci si aspetta si debbano comportare in quanto leader», ha dichiarato Gerson al sito web di The Hill. E dal momento che i leader migliori sono sia forti e decisi che in grado di mostrare sentimenti, le donne potrebbero, forse, «aprire la strada e mostrare che questi non sono attributi in competizione e in conflitto, ma complementari e necessari per una buona leadership».


(The Guardian, 25 aprile 2020. Traduzione di Laura Colombo)

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