28 Novembre 2019
Il Quotidiano del Sud

Lea Garofalo, a dieci anni dalla sua uccisione

di Franca Fortunato


Il 24 novembre 2009 Lea Garofalo, la testimone di giustizia, veniva uccisa dalla ’ndrangheta per mano del marito Carlo Cosco, condannato all’ergastolo in via definitiva insieme ad altre quattro persone. Lea è stata uccisa non solo e non tanto perché era diventata testimone di giustizia, quanto per aver deciso di lasciare il marito, di riappropriarsi della sua vita e dare a sua figlia Denise un futuro di donna libera di decidere di sé stessa. Essere abbandonati da una donna, per un uomo è insopportabile, come dimostra la mattanza di donne (142 nel 2018, 96 nel 2019 fino ad oggi) da parte di mariti, fidanzati, ex, ma per un mafioso lo è ancora di più, perché ne va del suo “onore” di uomo e di ’ndranghetista. È da qui che viene la crudeltà, l’efferatezza di chi ha ucciso Lea che non si è accontentato di torturarla e ammazzarla, ma ne ha bruciato il corpo. Un gesto simbolico, questo, per dire la volontà di cancellazione di una donna dalla faccia della terra. Lea, a dispetto dei suoi assassini, a dieci anni di distanza è più viva che mai. Lo è in sua figlia Denise che, in nome della madre, ha testimoniato contro il padre, lo è nella sorella Marisa, custode della sua memoria, lo è in ogni donna che riconosce e si riconosce nel suo desiderio di libertà. Lo è nelle donne che sul suo esempio sono diventate collaboratrici o testimoni di giustizia, mandando in carcere padri, mariti, fratelli, sorelle, madri e parenti. Alcune (Maria Concetta Cacciola, Tina Buccafusca) hanno pagato, come lei, con la vita; altre (Giuseppina Pesce, Ilaria La Torre, Annina Lo Bianco, Giusy Multari, Simona Napoli, Maria Stefanelli, Alba A.), quelle che ce l’hanno fatta a sopravvivere alla condanna a morte che continua a pesare su di loro, perché la ’ndrangheta non dimentica, vivono sotto falso nome con le figlie e i figli in località protette, lontane dalla Calabria. Donne accomunate dal desiderio di rendersi libere e liberare le figlie e i figli da quell’ambiente violento dove loro sono cresciute e che destina i figli maschi a diventare mafiosi e le femmine a sposare mafiosi.

Un destino a cui Lea si è ribellata e a cui anche altre donne, madri, non collaboratrici né testimoni di giustizia, hanno incominciato a ribellarsi, rivolgendosi al Tribunale dei minori di Reggio Calabria per chiedere l’allontanamento dalla famiglia delle figlie e figli. Settanta di loro sono state/i trasferiti in strutture o famiglie al nord, mentre i padri dal carcere minacciano i magistrati, rivendicano il diritto di averli a casa e imprecano per la “distruzione del nucleo familiare”. Lea è viva in tutte noi, nel nostro desiderio di libertà di donne, che in modo irreversibile cammina nel mondo, anche in Calabria, mentre la famiglia mafiosa, architrave della ’ndrangheta, grazie alle donne, continua ad andare a pezzi. […]


(Il Quotidiano del Sud, 28 novembre 2019)

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