29 Ottobre 2021
Il Quotidiano del Sud

Lea Garofalo fa paura anche da morta

di Franca Fortunato


Lea Garofalo, la testimone di giustizia torturata, strangolata e bruciata dall’ex compagno, condannato all’ergastolo insieme ai suoi complici grazie alla testimonianza, per amore della madre, della figlia Denise, fa paura anche da morta. Ne è testimonianza la ripetuta distruzione a Milano della targa, affissa allo schienale della panchina rossa posta in sua memoria nella piazza dove sorge l’appartamento in cui fu torturata ed uccisa quel 23 novembre del 2009. Piazza dello spaccio di droga e roccaforte dei clan calabresi. Quella targa, con la scritta «A Lea Garofalo, testimone di giustizia e vittima della ’ndrangheta», è un affronto, una provocazione, avranno pensato i mafiosi. All’inizio la targa venne vandalizzata, poi, nel marzo scorso, bruciata. Rimessa al suo posto il 24 aprile con una grande festa in ricorrenza del compleanno di Lea, fu di nuovo incendiata. Tenacemente rimessa, all’inizio di settembre fu incendiata di nuovo e rimessa il 3 ottobre. “Loro” ci proveranno ancora, non si daranno per vinti perché il vero problema non è la targa ma lei, la cui memoria è viva e il cui gesto, come quello delle altre donne che si sono ribellate alle “famiglie”, minando alle fondamenta la ’ndrangheta, mantiene tutta la sua forza e potenza. È questo che a “loro” fa paura, anche dopo la sua morte. Un gesto, quello di Lea, che torna ogni volta che una madre affida le proprie figlie/i ai magistrati per sottrarle/i alla famiglia mafiosa; torna ogni volta che una donna testimonia contro di “loro”, come stanno facendo in questi giorni nei tribunali di Catanzaro e Crotone Concetta Di Noia e Anna Maria Cerminara contro le cosche del crotonese. Dopo Lea, altre giovani donne, uccise dagli ex fidanzati, ne hanno condiviso la drammatica sorte. Roberta Siracusa, 17 anni, uccisa a Caccamo (Palermo) a gennaio scorso, bruciata e poi buttata in un burrone dal suo ex di 18 anni. Fabiana Luzzi, anni 16, uccisa nel 2013 a Corigliano Calabro con 20 coltellate e poi bruciata ancora viva dal suo ex di 18 anni. Sara Pietrantonio, anni 20, strangolata e bruciata nel 2016 dal suo ex di 27 anni. Donne i cui assassini non si sono sentiti soddisfatti di averle uccise – l’ex di Elena Casanova, ultima in ordine di tempo, dopo averla massacrata a martellate, al vicino accorso alle grida della donna ha detto «adesso sono soddisfatto» – ma si accaniscono sui loro corpi e li bruciano per cancellare ogni traccia del loro passaggio sulla terra. Una violenza che lascia senza fiato, un odio che nemmeno la morte placa. Un odio che affonda le sue radici nella cultura millenaria patriarcale, di cui la ’ndrangheta esaspera i (dis)“valori” della virilità e della famiglia, facendo dei legami di sangue la sua forza. È lo stesso odio che molti secoli fa ha armato la mano degli assassini di Ipazia d’Alessandria, filosofa e scienziata, amata dal popolo e onorata dai governanti che prima di ogni decisione «erano soliti recarsi da lei». Insopportabile per il vescovo Cirillo che voleva per sé quell’autorità e popolarità e così la fece uccidere. Il suo corpo fu torturato, fatto a pezzi e bruciato come quello di Lea e delle altre. La violenza inaudita degli assassini e l’amore per la propria libertà unisce questa donna della fine del IV secolo d.C. alle altre. A Lea l’unisce qualcosa di più, la paura di lei anche dopo morta. Su Ipazia cadde un grande silenzio, fu cancellata per secoli dalla memoria storica e solo l’amore delle donne l’ha riportata al mondo, facendola arrivare fino a noi. Col fuoco possono bruciare il corpo di una donna, una targa, ma non la storia e la memoria di lei.


(Il Quotidiano del Sud, 29 ottobre 2021)

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