24 Giugno 2023
Il Quotidiano del Sud

L’ecatombe greca e la strage di Steccato di Cutro

di Franca Fortunato


Nella notte tra il 13 e il 14 giugno davanti alla costa greca si è ripetuta la strage di Steccato di Cutro con un naufragio rivelatosi una ecatombe (564 dispersi, 104 sopravvissuti, 82 cadaveri recuperati). Questa volta il mare era calmo non in tempesta, non pioveva, non c’era vento ma faceva un caldo soffocante. Sul ponte di quel peschereccio erano ammassati l’uno sull’altro solo uomini, stipate “come sardine in scatola” nella stiva c’erano invece solo donne, minori e bambine/i (oltre cento). Moriranno tutte/i ingabbiati in quella stiva che diventerà la loro tomba. Per ore, col motore in avaria, il peschereccio è rimasto a galleggiare sulle acque placide del mare, a bordo non c’era né cibo né acqua ma sei cadaveri, tra cui un ragazzo di sedici anni, uccisi dagli scafisti dopo una rivolta per il cibo e l’acqua. Come a Cutro, la Guardia costiera, anche se allertata, prima da Frontex, l’agenzia europea di controllo delle frontiere, poi dalla ong Alarm Phone, non interviene se non dopo sedici ore dalla prima comunicazione e dodici dalla seconda. Un’eternità. C’è chi piange, chi prega, chi si dispera. Si susseguono le telefonate satellitari alla ong per chiedere disperatamente aiuto. La prima arriva da una giovane siriana, anche lei dispersa nel naufragio. L’ultima alle ventitré, quando ormai ogni speranza sembra perduta. «Sento che sarà la nostra ultima notte di vita». Quando la Guardia costiera greca è arrivata, tutti e tutte avranno pensato che ormai erano in salvo. Avranno pianto, gioito, ringraziato il loro Dio. Senza distribuire giubbotti salvagente la motovedetta ha agganciato il peschereccio a una fune per trainarlo. Manovra azzardata. Il barcone si è ribaltato e in un attimo si è inabissato con tutto il suo carico umano. Non so nemmeno immaginare le condizioni in cui quelle vittime innocenti chiuse nella stiva hanno vissuto quelle interminabili ore di attesa né tantomeno la loro morte tanto è atroce e crudele. Una morte ingiusta. So solo che sento un grande dolore per quelle donne, quelle madri annegate con le loro creature e quei minori come il tredicenne siriano Lakub che il padre, la madre e le sorelle avevano “prescelto” per allontanarlo dalla guerra e mandarlo in Svezia dai nonni, “per una vita migliore”. Era partito con un amico di famiglia che è sopravvissuto. Avevano attraversato, come tutte/i, il deserto e conosciuto l’inferno libico. Della maggior parte di loro non conosceremo mai i volti, i nomi, le storie, le paure, le speranze, i desideri e i sogni che li avevano sostenuti e spinti ad attraversare il Mediterraneo su quel barcone carico fino all’inverosimile. Per loro nessuna bandiera a mezz’ asta, nessun lutto europeo, nessun funerale a reti unificate, nessuna operazione internazionale di soccorso. Per loro, come per quelli di Cutro, solo parole prive di pietas: «non dovete partire», «il mare ha dei confini, e quei confini possono e devono essere custoditi» in difesa della fortezza Europa di cui la Grecia «è lo scudo», come disse la presidente Ursula von der Leyen nel 2020. Ad ogni naufragio (27.000 vittime accertate dal 2014) è un pezzo di umanità che si inabissa insieme a quei figli di un dio minore, la cui vita non conta. E perché dovrebbe contare? Contro di loro, l’Europa porta avanti da anni una guerra, combattuta con fili spinati, muri, respingimenti e rimpatri forzati, mancati soccorsi o tardivi, criminalizzazione delle ong, fiume di denaro per tenerli nei lager libici e nei centri di detenzione turchi. Quando la guerra conta più degli esseri umani, la morte più della vita, come sta avvenendo anche in Ucraina dove soldati ucraini e russi si stanno massacrando in una guerra fratricida, è l’umanità che muore.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io donna”, 24 giugno 2023)

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