4 Maggio 2020
Internazionale

L’eccezione americana

di Zadie Smith


Dice la verità così raramente che quando lo fa, com’è successo il 29 marzo 2020, ha l’impatto di una rivelazione: «Vorrei tanto riavere la nostra vita di prima. Avevamo l’economia più straordinaria che abbiamo mai avuto, e non avevamo la morte». Be’, forse non proprio tutta la verità. La prima frase non era né vera né falsa: descriveva solo un desiderio. Desiderio che, quando l’ho sentito esprimere – e ne ho trovato dentro di me un’eco lamentosa –, ammetto di aver soppesato, per un attimo, come fosse una mela lucida che tenevo in mano. Sembrava un desiderio dignitosissimo da nutrire “in tempo di guerra”, dato che è la guerra la metafora che lui ha deciso di usare. Solo che nessuno nel 1945 avrebbe voluto tornare alla “vita di prima”, cioè al 1939, se non per far resuscitare i morti. La catastrofe richiedeva un nuovo inizio. E solo un nuovo modo di pensare può portare a un nuovo inizio. Questo lo sappiamo. Eppure, quando lui ha detto «Vorrei tanto riavere la nostra vita di prima» ha colto l’opinione pubblica in un momento di debolezza: in vestaglia, in lacrime, o nel mezzo di una chiamata di lavoro, o con un neonato in braccio e mentre era nel mezzo di una chiamata di lavoro, o in procinto d’infilarsi una tuta ignifuga fatta in casa prima di avventurarsi nella metropolitana, per andare a fare un lavoro che non si può fare in casa, mentre da una costa all’altra milioni di bambini scalpitavano dalla noia. E sì, in quel contesto di fragilità, “la vita di prima” suonava rassicurante, anche solo come espressione retorica, tipo “c’era una volta” o “ma io lo amo!”. La sua seconda frase però mi ha fatta tornare in me. Balle, balle, balle. Il demonio è coerente, se non altro. Ho gettato via la mela e guarda un po’, era marcia e piena di vermi. Poi ha detto la verità: non avevamo la morte. Certo, avevamo persone morte. Avevamo i feriti e le vittime. Avevamo gli innocenti che ci rimettevano la vita per sbaglio. Avevamo il conteggio delle vittime e a volte perfino le foto sui giornali dei sacchi neri per i cadaveri, anche se a molti sembrava sbagliato farli vedere. Avevamo “disuguaglianze nelle condizioni di salute”. Negli Stati Uniti, però, questo implicava qualche forma di colpevolezza da parte dei morti. Al posto sbagliato, nel momento sbagliato. La pelle del colore sbagliato. Il quartiere sbagliato. Il codice postale sbagliato, le idee sbagliate, la città sbagliata. La posizione sbagliata delle mani quando gli era stato chiesto di scendere dal veicolo. L’assicurazione sanitaria sbagliata o forse nessuna assicurazione. L’atteggiamento sbagliato verso la polizia. Nell’immaginario statunitense pestilenze ed epidemie sono state relegate nell’ambito della storia passata o degli altri continenti

Quello che ci mancava completamente, però, era il concetto della morte in sé, della morte assoluta. Quella che arriva per tutti, a prescindere dalla posizione sociale. Nella morte assoluta sta la verità della nostra vita, ovviamente, ma gli Stati Uniti non sono mai stati molto inclini, sul piano filosofico, a vedere la vita come un intero, e hanno preferito affrontare la morte come una serie di problemi distinti. La guerra contro la droga, contro il cancro, contro la povertà e via dicendo. Non che ci sia qualcosa di ridicolo nel tentare di allungare la distanza tra la data sul nostro certificato di nascita e quella sulla lapide: la vita morale dipende proprio dal fatto che a quello sforzo attribuiamo un senso. Ma forse in nessun’altra parte del mondo quello sforzo – e il suo relativo successo – sono legati ai soldi come negli Stati Uniti. Forse è per questo che nell’immaginario statunitense pestilenze ed epidemie – considerate troppo poco attente alle disparità sociali – sono state relegate da un bel pezzo nell’ambito della storia passata o degli altri continenti. Anzi, l’ha messo in chiaro lui stesso all’inizio della sua presidenza, interi paesi «di merda» andavano considerati colpevoli del proprio alto tasso di mortalità: quella gente era per definizione nel posto sbagliato (laggiù) al momento sbagliato (in una fase arretrata dello sviluppo). Quei posti erano appestati in senso permanente, perché non avevano la lungimiranza di essere l’America. Neppure il collasso ambientale avrebbe toccato l’America o al limite l’avrebbe toccata solo all’ultimo minuto. In relativa sicurezza, riparata delle sue alte mura, l’America avrebbe banchettato con quello che restava delle sue risorse, ancora enormi in confronto alla sofferenza di quelli là fuori.

Ma ora, come lui ci fa notare, siamo grandi nella morte, siamo dei campioni. Si teme che, quando alla fine si tireranno le somme, in quel campo gli Stati Uniti saranno il paese numero uno al mondo. Eppure, paradossalmente, la presunta democraticità delle epidemie – il fatto che possano colpire allo stesso modo tutti gli aventi diritto al voto – si rivela un po’ sopravvalutata. Questa è senz’altro un’epidemia, ma le gerarchie statunitensi, erette nell’arco dei secoli, non si lasciano abbattere tanto facilmente. Il tasso di mortalità tra i neri e gli ispanici è attualmente il doppio che tra i bianchi e gli asiatici. I poveri stanno morendo più dei ricchi. Più nei centri urbani che nelle campagne. La mappa del virus nei quartieri di New York diventa più rossa proprio nelle zone dove vivono le persone delle fasce di reddito più basse e dove la qualità delle scuole è inferiore. La morte prematura non è quasi mai stata un fenomeno casuale negli Stati Uniti. In genere ha avuto una fisionomia, una collocazione geografica e un reddito molto precisi. Per milioni di statunitensi la guerra c’è sempre stata. La “guerra” che l’America le sta facendo dovrà per forza di cose andare oltre un leader fasullo.

Ma ora, a quanto pare per la prima volta, lui la vede. E, assetato di gloria, si definisce un presidente in tempo di guerra. Se lo prenda pure, quel titolo, così come il primo ministro britannico, sull’altra sponda dell’oceano, tenta di darsi un tono churchilliano. Churchill (che in tempo di guerra il suo dovere lo fece) imparò a sue spese che anche quando la gente ti viene dietro in una guerra, e anche quando concorda sul fatto che sia stata una guerra “giusta”, non significa necessariamente che voglia tornare alla “vita di prima” o farsi guidare da te verso quella nuova. La guerra trasforma chi la fa. Quello che prima era necessario ora appare superfluo; quello che era dato per scontato si rivela fondamentale. C’è un proliferare di questi strani capovolgimenti. I cittadini si ritrovano ad applaudire un sistema sanitario nazionale che negli ultimi dieci anni il loro stesso governo ha privato di fondi e trascurato in modo criminale. C’è chi ringrazia dio per l’esistenza di certi lavoratori “essenziali” che prima guardava dall’alto in basso, li schifava quando loro pretendevano di essere pagati 15 dollari all’ora. La morte è arrivata negli Stati Uniti. C’è sempre stata, anche se è stata coperta e negata, ma ora la vedono tutti. La “guerra” che l’America le sta facendo dovrà per forza di cose andare oltre un leader fasullo, scavalcarlo e superarlo. Questa è un’impresa collettiva: coinvolge milioni di persone, che non dimenticheranno facilmente quello che hanno visto. Non dimenticheranno l’orrore, nella sua eccezionalità tutta statunitense, di vedere i diversi stati, per dirla con le memorabili parole di Andrew Cuomo, governatore dello stato di New York, contendersi all’asta «come su eBay» attrezzature mediche in grado di salvare vite umane. La morte viene per tutti. Ma negli Stati Uniti da molto tempo a questa parte, si pensa che le maggiori probabilità di ritardarla se le aggiudica il migliore offerente. Una potenziale speranza per la nuova vita statunitense è che al suo interno un’idea simile diventi finalmente inconcepibile, e che la prossima generazione di leader possa ispirarsi non alla retorica bellicosa di Churchill ma alle parole dette in tempo di pace da Clement Attlee, il suo avversario alla camera dei comuni, il capo del Partito laburista, che nelle elezioni subito dopo la guerra ottenne una vittoria schiacciante su Churchill: «La guerra è stata vinta grazie agli sforzi di tutto il nostro popolo che, con pochissime eccezioni, ha messo al primo posto il paese e lasciato molto in secondo piano i propri interessi privati e particolari […]. Perché dovremmo pensare di poter raggiungere i nostri obiettivi in tempo di pace – garantire a tutti da mangiare, vestiti, case, istruzione, tempo libero, previdenza sociale e piena occupazione – dando la priorità agli interessi privati?». Come gli statunitensi non si stancano mai di ripetere, può darsi che ci siano aspetti della nostra vita in cui l’interesse privato ha il ruolo centrale. Ma, come ha deciso collettivamente l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale, messa in ginocchio dalla morte, la sanità non dovrebbe essere uno di questi.


(traduzione di Martina Testa – Internazionale n. 1355, 24 aprile 2020)

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