25 Luglio 2019
Avvenire

Legge antidiscriminazioni in Emilia-Romagna contro l’utero in affitto

di Luciano Moia


Cancellato nel testo in discussione il neologismo “omotransnegatività” che avrebbe potuto aprire la strada a interpretazioni ideologiche. Oggi la decisione su una norma discussa che non piace né all’opposizione di centrodestra né alle associazioni lgbt più radicali. Domanda decisiva: l’utero in affitto può essere letto come discriminazione di genere? Sì, secondo la legge regionale che forse oggi sarà definitivamente approvata dall’Emilia Romagna.

È stato stabilito di andare avanti a oltranza nella discussione e poi di arrivare al voto, per aggirare l’ostacolo degli oltre cento emendamenti presentati dalla Lega la cui valutazione della legge resta profondamente negativa. Quella che nella legge viene definita “surrogazione di maternità” è stato proprio il punto su cui ieri ha dibattuto a lungo il consiglio regionale a guida Pd. Ma il partito di Zingaretti, dopo l’approvazione del testo in commissione, appare una volta tanto compatto. 

Se tutto andrà come deve, entro stasera – più probabilmente nella notte – avremo la prima legge regionale contro le discriminazioni e le violenze di genere in cui si dice anche che l’utero in affitto è pratica da combattere perché offende la dignità della donna e riduce il figlio a una pratica commerciale. E quindi non solo va ricordata la condanna già espressa dalla legge 40, con i risvolti penali del caso, ma non vanno neppure sostenute con contributi regionali le associazioni impegnate nel promuovere questa pratica esecrabile. 

Il passaggio contro la gestazione per altri – se il testo non subirà modifiche – non sarebbe comunque l’unico degno di nota in una legge – avversata comunque sia dalle opposizioni di centrodestra sia dalla frangia più estrema delle associazioni lgbt – dove i consiglieri pd di area cattolica hanno avuto il merito di depotenziare gli acuti più ideologici.

A cominciare dal neologismo “omotransnegatività”, presente nella stesura precedente, che richiamava atteggiamenti discriminatori tanto indefiniti quanto pericolosi. Chi avrebbe potuto infatti delimitare i confini della “negatività” omofoba e vietare di includere per esempio opinioni critiche sulla pretesa di elevare a modello determinati stili di vita? Con la stessa logica scompare il concetto di discriminazione “potenziale” che avrebbe potuto essere letto come una sorta di processo alle intenzioni. Mentre si sottolinea con più forza la prevenzione delle discriminazioni e la tutela delle vittime, soprattutto per quanto riguarda l’articolo relativo alle politiche del lavoro e della formazione.

Importante anche il richiamo al diritto-dovere dei genitori di educare propri figli, secondo un’effettiva libertà di scelta che richiama l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e l’articolo 30 della Costituzione. Certo, non tutte le ombre vengono dissipate. Se appare lodevole il proposito di «tutelare ogni persona nella propria libertà di espressione e manifestazione del proprio orientamento sessuale e della propria identità di genere, nonché a prevenire e superare le situazioni di discriminazione, dileggio, violenza verbale, psicologica e fisica» (articolo 1), rimane da capire la necessità di ribadire «il diritto all’autodeterminazione di ogni persona in ordine al proprio orientamento sessuale e alla propria identità di genere» (articolo 2).

Soprattutto perché si intrecciano due aspetti – orientamento e identità – che non andrebbero confusi. Se, come conferma la maggior parte degli esperti anche di area lgbt, l’orientamento – etero o omosessuale – è una componente strutturale e costitutiva della personalità, come si può pensare di “autodeterminarlo” se non in riferimento a quelle teorie gender che pretenderebbero un’estensione illimitata – e spesso irragionevole – della fluidità di genere? Se è giusto cercare una via di dialogo sulla questione gender, come sottolineato anche dal recente documento “Maschio e femmina li creò” della Congregazione per l’educazione cattolica, occorre cogliere la problematicità di riferimenti alla “non discriminazione” che nascondono un rischio elevato: rendere irrilevante il valore della differenza sessuale per lo sviluppo della persona e delle relazioni.


(Avvenire, 25 luglio 2019)

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