6 Aprile 2023
Il Fatto Quotidiano

Libera e “gran pensatrice”: la prima giornalista d’Italia

di Francesco Ferasin


Dev’essere lì, la tomba di Elisabetta Caminer Turra. Tumulata fra un tabernacolo del Tiepolo e una pala del Tintoretto, nascosta da qualche parte nella chiesa barocca di Santo Stefano a Vicenza. Eppure il suo nome non c’è. Non si scorge nemmeno la sigla “E.C.T.”, con cui firmava le sue ferocissime recensioni sull’Europa letteraria. Il Comune deve ancora rivedere gli annali, confessa a mezza voce il sagrestano. Al momento non si sa dove sia. Ma viene da storcere il naso: sarà mica tutta qui la gloria che la storia ha saputo riconoscere alla prima giornalista donna d’Italia?

Lei non si sarebbe certo sorpresa di questo trattamento. Del resto, alla marginalità era abituata fin da piccola; da quando la madre la chiudeva nelle masserie per sottrarla agli intrallazzi amorosi. Era destinata a diventare una delle tante “fantesche, nate fra i pregiudizi, marcite nell’ignoranza”. L’unico vantaggio che la vita le concede è quello di nascere nella Venezia cosmopolita del 1751.

Carattere volitivo e libertino, Elisabetta fiuta subito l’avvento dell’Illuminismo. Studia da autodidatta tra una lezione di cucito e l’altra. Di notte divora Voltaire e Rousseau (messi al bando dalla censura veneta), di giorno li traduce per il padre Domenico, con cui fonda L’Europa letteraria. A 18 anni dirige già il giornale, decidendo la linea editoriale. Lega il suo nome alle traduzioni della comédie larmoyante: la “commedia lagrimevole”, come la chiama Carlo Gozzi, adirato per le recensioni impietose dei suoi drammi (un teatro degradato alla “Donna Serpente e al Re Cervo… e ad altre simili scurrilità”). Intanto il circolo di ammiratori cresce sempre di più. Senza saperlo, la Caminer incarna gli ideali dell’eroina romantica. Anche Goethe le fa visita. Ed è in questo fermento di idee nuove, ripulite dalle parrucche dell’Ancien Régime, che fioriscono i fogli d’opinione. In altre parole, il giornalismo moderno.

Nei suoi articoli “E.C.T.” si scaglia contro i dogmi della Chiesa e il classismo della borghesia. Punta il dito contro il gender gap partendo da un’apologia dell’adulterio. Ma soprattutto, è una delle prime intellettuali a capire chi è il vero padrone della stampa: “Ma fremano pur quanto possono gli Apologisti indiscreti della pudicizia; noi non ci asterremo per questo dal seguire la massima fondamentale del nostro istituto, di giovare cioè e di piacere alla massa dei nostri Lettori”.

Doveva essere un bel caratterino, a leggere i suoi incipit taglienti (“Ecco un libro che accresce il numero dell’inutili”). Gli uomini più illustri del tempo, non volendole riconoscere il potere di informare, le rimproverano quello di sedurre. Antonio Piazza la definisce una decima musa “di tanti ghiribizzi adornata, che pare una Bottega portatile”. Lei infatti è l’unica a steccare nel coro degli osanna (dando a Goldoni dell’egocentrico patologico), ma riesce a sguazzare sempre a testa alta in un “mestieraccio” tutto politica e testosterone. Svela, insomma, il grande inganno: che nascere femmina è un peccato originale da espiare con la servitù. Nel 1777 si chiede: “E poi che ne sarebbe degli uomini se le donne divenissero gran pensatrici?”. Lo scopre presto, quando si trasferisce nella bigotta Vicenza per seguire il naturalista Antonio Turra. Qui non trova nessuno che pubblichi la sua nuova creatura, il Giornale Enciclopedico. Deve aprire da sola una tipografia. Dalle corrispondenze conservate nella biblioteca Bertoliana di Vicenza emerge un carattere imprenditoriale pugnace come pochi. Anche il piglio polemico lo mantiene fino all’ultimo, quando viene sopraffatta da un brutto male. Forse un tumore, causato – si dice – da un pugno sferrato al seno da un soldato ubriaco.

Colpita in quella porzione di corpo di cui tanto andava fiera e difendeva, si spegne nel 1796. Anche gli articoli, che prima firmava con sommessa reticenza “E.C.T”, durante la malattia diventano sempre più anonimi (mentre lo stile rimane inconfondibile). E una tomba senza lapide è solo l’ultimo atto di una commedia della rimozione scritta su una vita straordinaria, troppo audace per essere ricordata.


(Il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2023)

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