19 Ottobre 2022
il manifesto

Liceale uccisa per un inno. Paura per l’atleta senza velo

di Farian Sabahi


Nella Repubblica islamica dell’Iran alle donne è vietato cantare in pubblico. Paradossalmente, in certe circostanze sono invece obbligate a cantare e, se rifiutano, rischiano di essere uccise.

È successo alla liceale Asra Panahi, 16 anni, assassinata dalle forze di sicurezza: l’hanno picchiata a sangue perché, con altre compagne di classe, si era rifiutata di cantare un inno dedicato alla Guida suprema, l’ayatollah Khamenei.

Lo denuncia su Telegram il Consiglio di Coordinamento del sindacato iraniano degli insegnanti, secondo cui varie ragazze sono state trasferite in ospedale dopo il pestaggio in una scuola nella città azerbaigiana di Ardebil (nord ovest), teatro di proteste di larga portata.

Ed è proprio qui, nelle province dell’Azerbaigian, che i vertici di Teheran temono il fermento, dopo i disordini nelle province iraniane del Kurdistan (ovest) e Sistan e Balucistan (sud est).

Avvocato e vicepresidente della Commissione per i diritti umani dell’Ordine degli avvocati nella provincia dell’Azerbaigian orientale, giovedì scorso Sina Yousefi aveva dichiarato che le persone arrestate nel capoluogo Tabriz sono oltre 1.700 e nulla si sa del loro destino.

Tra questi, lo studente Aysan Adibek e sua sorella Siddika Adibek: spariti la settimana scorsa, non hanno contattato la famiglia e non hanno un avvocato. Yousefi aveva quindi dato avvio a un comitato di difesa per i manifestanti arrestati, ma venerdì è stato fermato dalle forze di sicurezza e non si sa dove sia finito.

Se ieri pomeriggio a Teheran su viale Enqelab, il viale della Rivoluzione, c’erano cortei pacifici di studenti che camminavano in gruppo, passando davanti alle forze di sicurezza, a preoccupare è Elnaz Rekabi.

Domenica pomeriggio la scalatrice iraniana ha gareggiato in una competizione di arrampicata a Seul senza velo. Per questo motivo – scrive IranWire, sito di giornalisti dissidenti iraniani – sarà trasferita direttamente da Seul nella famigerata prigione di Evin a Teheran.

La giovane sarebbe stata ingannata dal capo della Federazione di arrampicata iraniana: obbedendo agli ordini dei pasdaran, l’avrebbe condotta dall’albergo di Seul all’ambasciata iraniana.

Ieri pomeriggio l’atleta ha scritto un post su Instagram per dire che il copricapo le è caduto «inavvertitamente»: «Mi scuso per avervi fatto preoccupare, sto tornando a Teheran insieme alla squadra». Se Elnaz Rekabi torna in Iran, senza chiedere asilo politico, è perché suo marito è lì.

Il suo caso è stato sollevato dalle Nazioni unite con le autorità iraniane: «Seguiremo la vicenda da molto vicino – ha dichiarato Ravina Shamdasani, portavoce dell’Ufficio dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani con sede a Ginevra – Le donne non dovrebbero mai essere perseguite per ciò che indossano e non dovrebbero mai essere sottoposte a violazioni come la detenzione arbitraria o altre violenze per come sono vestite».

In Iran, le donne praticano sport fin dai tempi dello scià quando, in pantaloncini corti o minigonna, servivano a dare l’immagine di un paese moderno: erano un tassello nella propaganda di regime.

Nella Repubblica islamica, praticare sport rispettando le regole non è facile: il velo è sempre obbligatorio, così come un abbigliamento che copra il corpo e ne nasconda le forme.

Per le iraniane, lo sport è stato e resta uno strumento di emancipazione, ma non tutte le storie sono a lieto fine: campionessa nei 20 km rana femminile in acque aperte, quando Elham Asghari decise di fare il giro dell’isola di Kish, nel Golfo persico – dandosi tre giorni di tempo – venne investita da una barca della polizia. Un trauma fisico e psicologico. A convincerla a non mollare era stato il padre, ex lottatore olimpico.

La speranza è che – in questa battaglia per maggiori diritti – gli uomini siano accanto alle donne.


(il manifesto, 19 ottobre 2022)

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